La polemica
La cultura antimafia è razzista
Se fossimo capaci di vedere bene la sostanza delle cose, senza che la vista rimanga solo impressionata dal tegumento retorico che la ammanta, allora riconosceremmo il segno profondo della cosiddetta cultura antimafia: il razzismo. Non mi riferisco – inutile precisarlo – alle persone, perlopiù in buona fede, che ispirano la propria militanza alla missione antimafiosa. I politici, i magistrati, i giornalisti che pure lo fanno sono seriamente convinti di parteggiare in tal modo sul fronte delle cose giuste.
Mi riferisco piuttosto, e appunto, alla cultura che quella convinzione determina, una cultura in profundo razzista e tanto più pericolosa perché intride atteggiamenti che nemmeno vagamente si sospettano discriminatori. E il razzismo della cosiddetta antimafia sta in ciò, che essa criminalizza non già un comportamento ma una condizione. E così la sanzione per una testata sul naso di un giornalista si misura sul grado di mafiosità del picchiatore. Così, ancora, l’identica corruzione, l’identica estorsione, l’identico omicidio eccitano più o meno i meccanismi reattivi dello Stato secondo che a commetterli sia il criminale comune o invece il mafioso.
Così, infine, è quel criterio discriminatorio, esattamente riferito a quella “condizione”, a fare che le cure di giustizia vadano dal degrado della normalità detentiva ai tormenti del carcere duro. Ed è tanto più evidente il presupposto razzista di questo meccanismo, quando si vede come esso funziona nel coinvolgimento indiscriminato delle “famiglie”, dei “clan”, i cui membri scontano una colpa non diversa rispetto a quella attribuita a un colorato in regime di apartheid.
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