Personalmente ricordo molto bene quel giorno di 28 anni fa. Arrivò la notizia in redazione poco prima del Tg3 e restammo sgomenti. Falcone in fin di vita, Falcone morto, e anche sua moglie, morta, e gli uomini della scorta, e la potenza e la scientificità mostruosa dell’attentato. La Fiat Croma demolita dalla bomba. E poi un’altra cosa: il pensiero di quel che avevamo scritto e fatto nei mesi precedenti. Dico noi dell’Unità. Allora ero vicedirettore dell’Unità. Da qualche giorno il direttore era cambiato ed era venuto a dirigerci un giovane e brillante leader politico: Walter Veltroni. Cosa avevamo fatto e detto noi dell’Unità? Semplicemente avevamo con una certa cocciutaggine dato sponda ad una campagna contro Falcone. Con l’idea che Falcone avesse ceduto alle pressioni di quel pezzo di politica che era compromesso con la mafia e che Falcone volesse nascondere il “terzo livello”.

In gergo si chiamava così: terzo livello. Si diceva che la mafia fosse fatta a tre strati: la truppa, poi i capi (cioè la cupola, che allora era guidata da Totò Riina il quale aveva spodestato il vecchio Greco) e infine il terzo livello, e cioè la direzione vera, composta da un certo numero di esponenti altissimi della politica italiana. La suggestione era che nel seggio più alto ci fosse Andreotti. Falcone smentì quell’idea, disse chiaramente che per fare la lotta alla mafia si doveva fare la lotta alla mafia. Cercando i soldi, gli indizi, le prove, i colpevoli. Usando la tecnologia, i pentiti, le proprie capacità di indagine sul terreno. E non inseguendo teorie bislacche scritte a tavolino.

E neppure affidandosi alle speranze che dalla lotta alla mafia potessero venire dei danni per i propri avversari e quindi dei vantaggi per se. Il terzo livello – disse – non esiste. Poco prima di lasciare la magistratura, costretto dalla guerra che gli facevano i colleghi – e la politica, e i giornali – Falcone aveva incriminato per calunnia un pentito – si chiamava Pellegritti – che voleva tirare in ballo Andreotti. Lo incriminò perché le sue accuse apparivano del tutto infondate e prive di riscontri. Falcone usò in modo molto spregiudicato i pentiti, però sapeva usarli: non andava dietro a chiunque e nemmeno pretendeva di imbeccarli. Li ascoltava, controllava, riscontrava, cercava prove. Dopo di lui nessuno più ha fatto così. I pentiti sono diventati i padroni delle Procure.

Dicevo di quel pensiero: avevamo sbagliato tutto. Avevamo pensato che Falcone fosse un moderato, uno che voleva il compromesso. Che abbaglio. Falcone era semplicemente il più geniale investigatore mai apparso nel nostro paese, conosceva il suo mestiere, talvolta lo esercitava persino in modo spavaldo e forse eccessivamente aggressivo, e facendo così – in pochi anni – aveva inferto alla mafia i colpi più pesanti che mai la mafia avesse ricevuto in tutta la sua storia secolare. Falcone usò persino strumenti discutibili, come il maxiprocesso, e probabilmente lo fece sapendo che quegli strumenti erano discutibili, ma faceva queste cose dentro una visione politica e del diritto, e con la forza di una professionalità che nessun altro si è mai sognato di possedere.

Falcone lavorava con un gruppo ristretto e molto fidato di collaboratori. Quando lasciò la procura di Palermo per andare a Roma con Claudio Martelli al ministero della Giustizia, lasciò in Sicilia alcuni dei suoi uomini più sicuri e combattivi. Volete un nome? Il più forte, il più illustre? Era un colonnello. Si chiamava Mario Mori. Aveva fatto esperienza col generale Dalla Chiesa, prima sulla frontiera del terrorismo e poi su quello di Cosa Nostra. Era abile, determinato, intelligente. Conosceva perfettamente Falcone, i suoi metodi, la struttura delle sue indagini. Stava lavorando su un dossier che aveva impostato con Falcone. Si chiamava Mafia e Appalti. Aveva messo insieme tutte le informazioni sui rapporti di Cosa Nostra con le imprese del Nord. Falcone fece pressioni perché il dossier fosse preso in mano da Borsellino. Anche Borsellino fece pressioni per averlo. Era un dossier che poteva travolgere la borghesia italiana. La mattina del 19 luglio (del 1992) il Procuratore di Palermo Giammanco telefonò a Borsellino e gli disse che gli avrebbe affidato il dossier. All’ora di pranzo però Borsellino fu ucciso.

E in realtà cinque giorni prima della sua morte due sostituti di Giammanco avevano già firmato la richiesta di archiviazione di quel dossier. La storia del dossier finisce lì, muore con Borsellino tutto il lavoro di Falcone sui rapporti tra mafia e borghesia del Nord. Mori, dopo quel colpo, si ritirò in buon ordine, perché Mori è un carabiniere. E da carabiniere continuò la sua guerra strenua con la mafia. Era una guerra pericolosissima, perché aveva di fronte i corleonesi, quelli che i mafiosi siciliani chiamavano “I viddani”, che avevano travolto la mafia di Palermo e ora stavano conducendo una politica da esercito, non da cosca: da falange militare feroce, sparavano più che potevano, attentati, dinamite, morte morte morte. L’hanno persa quella battaglia i “viddani”, facendo e lasciando molte vittime sul campo. Mori l’ha vinta. Ma la compagnia dell’antimafia, quella che aveva perseguitato Falcone, gli si rivoltò contro, come aveva fatto con Falcone.

Mori e i suoi uomini, cioè quel pugno di audaci militari combattenti che sconfisse l’esercito di Riina e salvò l’Italia da un bagno di sangue, oggi sono sotto processo. È il più spaventoso e triste paradosso della storia della repubblica. La mafia se la ride. Il processo “trattativa” quello voluto da Ingroia e Di Matteo è la più clamorosa ingiustizia della storia della Sicilia. Si fonda sulle accuse di un mafioso e del figlio di un mafioso: Brusca e Ciancimino. Gli eroi sono processati dai burocrati. I nemici della mafia messi sotto accusa da un apparato statale di dilettanti. Povero Falcone. Povero Falcone.

P.S. Quel giorno, il 23 maggio, andai dal nuovo direttore e gli dissi che volevo scrivere un articolo per dire quanto e perché noi dell’Unità avevamo sbagliato a schierarci coi dilettanti dell’antimafia contro Falcone. Veltroni me lo fece scrivere e lo pubblicò, mi pare il giorno dopo. Io vado molto fiero di quell’articolo.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.