Ho seguito con attenzione la proteste degli avvocati sulle attuali modalità d’uso delle tecnologie video nel processo penale e mi sono sentito chiamato in causa, e un po’ anche colpevole, perché sono stato io ad aver proposto, nel 1989, l’utilizzazione delle tecnologie video nell’ambito del processo penale e ad aver anche coordinato per circa tre anni, in base ad un accordo tra Cnr e Ministero della giustizia, gli esperimenti di utilizzazione di quelle tecnologie in cinque tribunali e in una procura. Esperimenti allora autorizzati dal Ministro della Giustizia, Claudio Martelli e attivamente promossi dal direttore generale degli affari penali, Giovanni Falcone.

Condivido con gli avvocati l’avversione all’uso di collegamenti video per celebrare i processi ma so anche bene che l’avversione all’uso delle tecnologie video era diffusa tra gli avvocati penalisti anche in passato. È un orientamento negativo dovuto anche al fatto che le tecnologie video non sono state finora utilizzate con le finalità per cui erano state inizialmente da me proposte e che avevano governato le sperimentazione negli uffici giudiziari per promuovere un processo più efficace e garantista, sia nella fase dibattimentale che in quella della indagini preliminari. È un orientamento negativo comprensibile ma a mio avviso errato perché un corretto uso delle tecnologie video, diverso da quello che se ne fa oggi, sarebbe di grande utilità non solo ai fini di un giusto processo ma anche del potenziamento dei diritti della difesa.

Ricordo che coll’avvento del codice di procedura penale di stampo accusatorio del 1988, uno dei più difficili problemi da risolvere a livello operativo era la corretta e fedele verbalizzazione del processo divenuto (formalmente) orale. Svolsi allora una ricerca sulle molteplici modalità e le varie tecnologie con cui tale compito veniva assolto nei paesi che avevano sempre avuto un processo accusatorio. A Louisville, nel Kentucky ebbi modo di assistere (ed era allora una novità anche negli Usa) all’utilizzo di riprese video che, nel corso dell’udienza, si posizionavano automaticamente sui soggetti che di volta in volta parlavano, dando in tal modo una fedele rappresentazione visiva non solo delle cose dette in udienza ma anche delle modalità con cui venivano dette (atteggiamenti, comportamenti, esitazioni, cioè tutte le comunicazioni non verbali). Intervistai magistrati e avvocati che la utilizzavano con soddisfazione sia in primo grado che in appello e acquisii informazioni dettagliate sulle tecnologie utilizzate che, tra l’altro, consentivano anche all’avvocato di avere copia della videoverbalizzazione al termine di ogni udienza.

A testimonianza del rilievo probatorio che le comunicazioni non verbali assumono nel processo penale mi è utile ricordare quanto scritto su questo giornale alcuni giorni fa (il 21/4/20209) dal Presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. Oltre a censurare l’uso delle telecamere per la celebrazione delle udienze da remoto, Caiazza indica anche le ragioni per cui con esso si viene a minare l’essenza stessa del “diritto di difesa” che egli, in maniera sommaria ma efficace, così ci descrive: «Il controllo fisico, percettivo, emotivo della formazione della prova, della attenzione del giudice, della reazione delle altre parti nell’aula, la comunicazione non verbale con il teste, con il giudice, con il nostro stesso assistito, fatta di sguardi, di tesaurizzazione di una incertezza, di un silenzio improvviso, di un cambio del tono della voce. Percezione che alimenta le intuizioni, le scelte, le accelerazioni o le rinunzie del percorso difensivo».

Certamente le attuali, claudicanti, modalità di verbalizzazione dei processi non sono in grado di fornire una rappresentazione di quelle “comunicazioni non verbali” che l’avvocato Caiazza considera, giustamente, cruciali per il “diritto di difesa”. Attualmente esse vengono conservate solo nella memoria, caduca, selettiva, e a volte distratta dei partecipanti al processo ed in caso di divergenze non vi è modo di effettuare verifiche. Una difficoltà sempre presente ma che caratterizza in particolare i processi lunghi e complessi che vedono la presenza di molti imputati ed avvocati. Con il sistema della videoverbalizzazione anche le comunicazioni non verbali possono essere invece richiamate, riviste e valutate, in caso di dubbio o contestazione, sia nel corso del dibattimento che al momento della decisione, sia in primo grado che in appello. Acquistano cioè un valore probatorio che altrimenti non avrebbero.

Non mi soffermo a descrivere le garanzie per la difesa e per la protezione dei diritti civili nell’ambito processuale che deriverebbero dall’uso della videoverbalizzazione nelle indagini preliminari. Mi basti ricordare le risposte dei 4265 avvocati delle camere penali, da noi intervistati a varie riprese tra il 1992 e il 2012. Alla domanda se i pubblici ministeri nel corso delle indagini utilizzassero i loro poteri e la loro influenza per ottenere dai testimoni dichiarazioni conformi alle loro tesi accusatorie, circa il 50% degli avvocati ha detto che il fenomeno avviene di frequente, più del 40% ha detto che avviene ma non di frequente e meno del 10% di non aver avuto esperienza di quel fenomeno. Con la videoverbalizzazione delle indagini preliminari si creerebbe certamente una maggiore trasparenza in un settore che ora ne ha poca e si introdurrebbero strumenti di responsabilizzazione in un’area dove attualmente non ve ne sono. Potrebbe cioè essere un buon antidoto per curare o alleviare quella malattia che sembra essere diffusa, non solo in Italia, tra coloro che hanno la responsabilità di condurre le indagini (da noi il pubblico ministero), una malattia cui uno studioso inglese ha dato il suggestivo nome di “sindrome del cacciatore”.

Alla fine dell’attuate periodo di emergenza che riguarda anche il processo penale, sarebbe, quindi, opportuno analizzare a tutto campo i molteplici usi delle tecnologie video nell’ambito del processo penale, individuando quelle che sono con esso incompatibili (come certamente lo è udienza da remoto) e promuovendo invece quelle che sono utili per la promozione del giusto processo (come certamente lo è la videoverbalizzazione). Auspicherei che gli avvocati, fossero, senza pregiudizi, promotori e protagonisti di questa iniziativa con l’obiettivo, proprio della loro funzione, di assicurare che le innovazioni anche in questo settore servano a potenziare i diritti della difesa per meglio garantire quelli dei cittadini.

Una postilla. Le sperimentazioni della videoverbalizzazione da noi effettuate vennero considerate positive dal Ministero della Giustizia che provvide quindi ad acquistare le attrezzature per gli uffici giudiziari, attrezzature che però non vennero mai utilizzate per la videoverbalizzazione del processo, anche perché al termine della sperimentazione Claudio Martelli non era più Ministro e Giovanni Falcone era stato assassinato dalla mafia. Aggiungo che valutazioni molto positive sulla videoverbalizzazione vennero espresse anche in lettere ufficiali scritte dai presidenti dei collegi giudicanti che avevano partecipato alla sperimentazione. Tra esse mi piace ricordarne una, perché più di altre si collega alle cose dianzi dette, quella di un presidente di Corte d’assise il quale testimonia come la possibilità di rivedere alcune testimonianze e gli aspetti non verbali con cui erano state rese fosse stata molto utile a lui ed ai giudici popolari in fase di giudizio.

Attualmente le tecnologie disponibili sono molto più avanzate e la adozione della videoverbalizzazione sarebbe meno costosa e molto più agevole da gestire. Per quel che oggi può valere, le complesse sperimentazioni da noi allora compiute e la copiosa documentazione ad essa relativa sono state pubblicate dal Cnr nel 1993 in un ampio volume scritto da me e dai miei collaboratori dell’Istituto di Ricerca sui Sistemi giudiziari.