La definitiva approvazione della disciplina che – sia pure col paradossale alibi della limitata vigenza – tiene a battesimo il dispositivo del processo penale telematico, meglio del processo che dematerializza l’aula di udienza e affida al circuito dei cristalli liquidi la partecipazione dei suoi protagonisti, permette di definire in tutta la sua sconcertante carica eversiva una decisione politica che reca i tratti della ribellione ai vincoli delle prescrizioni costituzionali e dei fatti – perciò, della verità. E si sa che quando ciò accade, quando, cioè, un potere agisce nel disprezzo delle regole e dei principi costituzionali e dei fatti, assume connotazioni che lo proiettano nello spirito delle culture totalitarie.

Dietro questa inusitata fuga in avanti, non sta solo l’archiviazione della tradizione e dell’ontologia del processo – e, dunque, il congedo dalla loro traduzione normativa nelle Carte costituzionali e nel diritto europeo dei diritti umani – bensì qualcosa di assai più grave e preoccupante per la tenuta di una democrazia fondata sui diritti, vale a dire la rottura del rapporto tra potere e verità. Si tratta di un punto a mio avviso cruciale per comprendere la gravità di quanto accaduto. Il nesso tra esercizio politico della normatività e verità resta quello scolpito con straordinaria lucidità da Hannah Arendt, che nella verità individuò un elemento di durezza odiato dai tiranni i quali vi intravedono «la concorrenza di una forza coercitiva che non possono monopolizzare».

Nella ricostruzione arendtiana la verità coincide con “i fatti” e col rispettivo carattere di “esasperante ostinatezza”, la cui non modificabilità li rende limite invalicabile di ogni potere. Allorché quest’ultimo aggira i fatti o promuova una loro conoscenza menzognera, oppure deliberi “contro i fatti”, acquisisce il volto del totalitarismo. A fianco ai “fatti” di Hannah Arendt – o, se si vuole, dentro ad essi – l’epistemologia dei moderni Stati costituzionali di diritto annovera i diritti fondamentali, vale a dire le situazioni di valore individuale che concorrono a definire le basi di legittimazione del potere.

Questa digressione permette di svelare l’inquietante connotazione del monstrum del giudizio penale smaterializzato, vuoi perché clamorosamente distante dal paradigma costituzionale di giusto processo, vuoi in quanto si assume a fondamento della sua giustificazione asserti non veritieri poiché contrari a “fatti”. Della violazione delle norme costituzionali si è abbondantemente disquisito in questi giorni: in evidenza è venuta, in buona sostanza, l’ampia e diversificata gamma di diritti e facoltà processuali che fanno capo alla presenza fisica innanzi al giudice e ai testimoni dell’imputato e del suo difensore, ma anche – e in maniera niente affatto marginale – l’esigenza del giudice di disporre del contatto diretto con le fonti di prova al fine di arricchire il patrimonio della conoscenza funzionale ad una pronuncia che salvaguardi l’in dubio pro reo.

Sul punto, è appena il caso di osservare come una responsabile opera di sensibilizzazione pubblica ai valori costituzionali non dovrebbe mancare di sottolineare che nel processo penale il conflitto tra esigenze repressive (motivate storicamente anche da bisogni di punizione solo simbolici, come dimostra l’esperienza del capro espiatorio) e protezione della libertà dell’accusato non va risolto – assecondando il crucifige populista – in favore delle prime, ma nella direzione opposta (ricordando che per assolvere è sufficiente un dubbio ragionevole e che per condannare occorre la certezza della responsabilità).

Ma è soprattutto sul terreno dei fatti e della contrarietà ad essi che la decisione legislativa sul processo penale dematerializzato (e, perciò, devitalizzato) sembra accampare una giustificazione che le conferisce una epistemologia dispotica. Invero, deve con risolutezza affermarsi come sia contrario ai fatti – quindi falso nei presupposti – l’assunto secondo cui dopo l’11 maggio, quando sarà cessata la paralisi normativa dell’attività giudiziaria, non sarebbe possibile celebrare i processi negli spazi fisici delle aule di udienza. La natura arbitraria della tesi non è stata dimostrata solo dall’articolata proposta dell’avvocatura penale che ha convincentemente argomentato come possano trovare adeguato contemperamento la sicurezza delle parti e dei giudici e l’esigenza di trattazione dei processi, ma si ricava dalle molte altre attività il cui svolgimento è consentito ed in pratica avviene (basti pensare al lavoro nelle sedi parlamentari, ma anche all’esperienza dei tribunali tedeschi che continuano ad operare nelle aule con forme di opportuno distanziamento).

Parimenti contraria ai fatti è la decisione di prevedere che il giudice – che voglia ricorrere alla modalità di trattazione telematica – si assicuri che venga rispettato il contraddittorio, dal momento che ciò non è possibile stante l’irriducibilità del contraddittorio nella formazione della prova – fosse anche limitato all’esame del consulente, del perito o dell’ufficiale di p.g. – a forme di interazione diversa da quella fisica contestuale che si instaura tra l’interrogante e la fonte di prova escussa.

Siamo, dunque, in presenza di una normativa ipotecata da una concezione potestativa del potere, insofferente ai vincoli del diritto ed alle pretese di una ragione che trae fondamento e conformazione dai fatti. Una normativa affetta, perciò, da un deficit di cultura democratico/parlamentare, plasticamente testimoniata dalle modalità ancora una volta scelte per l’introduzione di un congegno tanto dirompente e traumatico per l’equilibrio del sistema, quanto fortemente polemogeno. Anziché seguire la via maestra del decreto-legge (o del d.d.l.), la maggioranza politica ha optato – come era già accaduto in occasione della riforma della prescrizione – per il ricorso all’emendamento successivamente blindato col voto di fiducia.

È avvenuto, così, che il commiato da un archetipo di giustizia penale pensato e strutturato per servire la causa delle ragioni dell’uomo (l’accusato, ma anche il giudice investito della più audace delle prerogative che la comunità politica si attribuisce), faccia il suo ingresso di sbieco nell’ordinamento dello Stato costituzionale di diritto, con modalità legittime ma oblique sul piano della responsabilità politico/istituzionale, che calpestano le prerogative di ampiezza e centralità del confronto parlamentare, mortificandone le potenzialità dialettiche e riducendo la democrazia rappresentativa a penosa parodia. Certo, l’esautoramento del Parlamento non è vicenda dell’oggi. Dell’oggi è, invece, la sfrontata pervasività della pratica di strumentalizzare il fenomeno per varare riforme eversive della Costituzione e, perciò, deficitarie di ragioni spendibili nel circuito del confronto intersoggettivo delle idee.

Del resto, di ciò sembrava si fosse resa conto la maggioranza della Commissione giustizia quando, qualche giorno fa, in un risveglio di coscienza critica e di orgogliosa resipiscenza identitaria votò la proposta di condizionare l’approvazione del Cura Italia allo stralcio della disciplina sul processo telematico. Purtroppo, sembra che le logiche di bassa Realpolitik abbiano miseramente prevalso e, con esse, le nubi dell’oscurantismo hanno spento barlumi di civiltà.