La trasmissione di mercoledì sera, Atlantide (La7), curata da Andrea Purgatori, nella sua parte iniziale è stata dedicata ad una ricostruzione dell’opera di Giovanni Falcone che, anche secondo noi, ha avuto il merito storico di aver impresso un salto di qualità alla lotta alla mafia, precedentemente inesistente o del tutto disorganica. Con Falcone la lotta alla mafia fece un salto di qualità sia perché essa si fondò su un’analisi del fenomeno preso nella sua organicità e considerato nelle sue gerarchie interne, sia perché fece leva su strumenti quali le intercettazioni telefoniche, ma specialmente i pentiti con una attenzione assai rigorosa sulle loro caratteristiche e sulla loro genuinità. Su questa tematica la trasmissione ha utilizzato come apprezzabile testimonial le riflessioni di Alfredo Morvillo magistrato e cognato di Giovanni Falcone. Una prima grande perplessità nasce quando Saverio Lodato ha affermato che, dopo il fallito attentato dell’Addaura, Falcone lo volle incontrare nella sua qualità di giornalista dell’Unità per lanciare la battuta-messaggio «sulle menti raffinatissime che avevano progettato quell’attentato» per sottolineare che si trattava di più di un soggetto esterno alla mafia e che faceva parte dello Stato.

Dopo 28 anni di silenzio Saverio Lodato ha voluto indicare uno di questi soggetti in Bruno Contrada. L’operazione è discutibile da molti punti di vista: perché Lodato parla dopo 28 anni? Quale credito si può dare a questa “rivelazione” priva di riscontro (è evidente che Falcone non può né parlare né smentire)? Per di più essa è stata seguita da una durissima riproposizione della trattativa Stato-mafia con un selvaggio attacco a Giorgio Napolitano. Come minimo una testimonianza di questo tipo avrebbe richiesto un dibatto ad hoc che non c’è stato. Solo due ore dopo, a mezzanotte e mezza, c’è stata una polemica telefonata dell’avvocato di Contrada Stefano Giordano.

Ma questa sortita di Lodato era l’antipasto della seconda parte della trasmissione che è consistita in una riproposizione della teoria della trattativa Stato-mafia la cui veridicità è stata data per scontata anche perché è stata fondata non solo sulle esposizioni di magistrati che la stanno portando avanti da tempo come Di Matteo e Ingroia, ma anche con quella di Massimo Ciancimino, considerato da Di Matteo e da Ingroia una sorta di icona dell’antimafia, ma invece anche per le condanne avute ritenuto da molti altri personaggio di estrema ambiguità e di altrettanto estrema inattendibilità. È noto che storici, avvocati, altri magistrati – per tutti valgano i libri e i saggi del prof. Fiandaca – contestano alla radice questa teoria: a nessuno di costoro è stata data la parola. Detto tutto ciò, vogliamo prendere in considerazione due questioni sulle quali la trasmissione o ha sorvolato o ha fornito una versione insieme reticente e fuorviante.

Stranamente una trasmissione così mirata contro le carenze, le doppiezze, le perversioni dello Stato ha sorvolato su quello che è stato, ed è tuttora, uno scandalo straordinario, cioè il depistaggio avvenuto nel corso del processo per l’assassinio di Borsellino con la costruzione del falso pentito Scarantino che ha provocato la condanna all’ergastolo di una serie di persone risultate innocenti. In quella vicenda processuale, diversamente dal pm Di Matteo, Ilda Boccassini aveva capito che si trattava di un pentito fasullo. Ma a parte questi marchiani errori commessi dai magistrati inquirenti e da quelli giudicanti in quel processo, rimane aperto un interrogativo grande quanto una casa: chi ha ispirato quel depistaggio? Chi ha ordinato al superpoliziotto Arnaldo La Barbera, allora esponente della polizia di Stato e forse anche dei servizi segreti, di minacciare Scarantino affinché svolgesse il ruolo del pentito e si assumesse la responsabilità della strage? Su questo nodo la trasmissione ha addirittura taciuto e si è guardata bene di ascoltare la figlia di Borsellino, Fiammetta.

Ma un’altra questione su cui la trasmissione ha dato una versione del tutto imprecisa ha riguardato un aspetto fondamentale della vicenda Falcone. La trasmissione ha giustamente ritenuto che negli ultimi anni Falcone era isolato. Ciò in parte è vero. Anche se va ricordato che così come Bettino Craxi fu fino al suo assassinio molto vicino al gen. Dalla Chiesa (Craxi aveva in testa il disegno di farlo diventare prima o poi ministro dell’Interno) così (ma ciò è stato detto nella trasmissione) Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, diede a Falcone il ruolo di direttore degli Affari Penali al ministero di via Arenula. Quello che la trasmissione però non ha affatto ricordato è che Falcone andò a ricoprire quel ruolo perché era stato del tutto emarginato all’interno della magistratura. Quest’emarginazione però era stata messa in atto non solo dalle correnti della magistratura a cui poteva riferirsi ad esempio un Giammanco, ma egli fu emarginato proprio da Magistratura democratica e fu attaccato dall’Unità. Quando nel gennaio 1988 fu in discussione la nomina a consigliere istruttore di Palermo e i candidati erano Falcone e Meli, Elena Paciotti, di Md, motivò in modo assai circostanziato la sua scelta in favore del secondo.

Il testo lo si può ritrovare nel libro di Bonini e Misiani La toga rossa. Elena Paciotti era una delle più autorevoli esponenti di Magistratura Democratica. Quando si discusse il progetto della superprocura antimafia ideato proprio da Giovanni Falcone, una vasta coalizione – composta da Pci, Magistratura democratica, Csm e da personaggi come Leoluca Orlando – fu contro la sua istituzione e ancora di più contro la sua assegnazione al magistrato palermitano. Né fu considerato bene il suo ruolo di direttore degli Affari Penali. Sull’Unità del 12 marzo 1992 Alessandro Pizzorusso scrisse un articolo dal titolo: “Falcone superprocuratore? Non può farlo. Vi dico perché”. Il principale collaboratore del ministro non dava più garanzia d’indipendenza. Pizzorusso affermava che la collaborazione fra il magistrato e il ministro si era fatta così stretta: «Che non si sa bene se sia il magistrato che offre la sua penna al ministro o se sia il ministro che offre la sua copertura politica al magistrato. La prima deduzione è che fra i magistrati è diffusa l’opinione secondo cui Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello di procuratore nazionale antimafia».

È evidente che la dichiarazione di voto di Elena Paciotti e quest’articolo di Pizzorusso andrebbero iscritti in una nuova edizione della Storia della colonna infame. Comunque, la maggioranza del Csm preferì Agostino Cordova a Giovanni Falcone per la carica di procuratore antimafia. Questo era il rapporto autentico fra Falcone e la corrente di Magistratura democratica che poi, insieme agli esponenti dei Ds, ha fatto di tutto per riappropriarsi della memoria di “Giovanni” dopo il suo assassinio, operazione che provocò la clamorosa reazione di Ilda Boccassini che, in un’assemblea, fece un clamoroso discorso: «Anche voi avete fatto morire Falcone con la vostra indifferenza, le vostre critiche, voi che diffidavate di lui. Due mesi fa ero a Salerno ad un’assemblea dell’Anm, non dimenticherò quel giorno, le parole più gentili erano queste: Falcone si è venduto al potere politico.

E tu, Gherardo Colombo, tu che diffidavi di Giovanni che sei andato a fare al suo funerale? L’ultima ingiustizia l’ha subita proprio da voi di Milano, gli avete mandato una rogatoria per la Svizzera senza gli allegati. Mi telefonò quel giorno e mi disse: “Che tristezza, non si fidano del direttore degli Affari Penali”». Su tutto ciò la trasmissione ha rigorosamente taciuto perché contraddiceva lo schema semplicistico e fazioso su cui essa era fondata. Ma è evidente che essa aveva uno scopo preciso, quello di influenzare un delicato processo tuttora in corso.