Finalmente qualcuno l’ha detto: Cosa nostra non c’è più. Quindi: viva l’antimafia! Il tono del giudice Pignatone ha la morbidezza che si addice al presidente del tribunale vaticano, ma il concetto è chiaro. E non significa che non esista ancora qualche forma di mafia che faccia i propri affari, ma che la stagione sanguinaria che ha lasciato sul selciato delle strade di Palermo centinaia di morti, quelli delle istituzioni e gli altri, è ormai lontana nel tempo e solo nei tristi ricordi di chi ha una certa età. Una realtà che pare rivivere ogni anno, a ogni ricorrenza di luglio o di agosto, quasi fosse vero che La mafia uccide solo d’estate, il famoso film di Pif del 2013.

Pignatone le elenca con puntiglio, le vittime più significative, quelle uccise per vendetta e quelle per la loro simbologia: da Rocco Chinnici fino a Falcone e Borsellino. E non può fare a meno di notare, anche se non lo dice esplicitamente, che nel suo elenco, fatta eccezione per l’assassinio di don Pino Puglisi, avvenuta nel 1993, le stragi terminano proprio lì, tra il 29 maggio e il 19 luglio del 1992, con l’annientamento dei due giudici che rimarranno per sempre i simboli della “lotta alla mafia”. È lì che è terminato il potere di Cosa nostra. Ed è lì che anche l’antimafia avrebbe dovuto deporre le armi, dopo gli arresti dei boss latitanti. Invece si sono costruiti carriere e processi, come quello sulla “trattativa” o quelli contro Silvio Berlusconi.

La realtà è che restano solo le ricorrenze, con le celebrazioni e le sfilate degli uomini dello Stato. Ma resta anche quel comma tre dell’articolo 416 bis del codice penale che non dovrebbe avere più senso, e che recita “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti…”. Un concetto anacronistico, che pare però così inamovibile da aver indotto il legislatore ad aumentare le pene all’infinito, fino a 26 anni di carcere solo per il reato associativo, se l’organizzazione mafiosa dispone di armi. Anche se, come abbiamo visto dalla ricostruzione storica del dottor Pignatone, per fortuna le armi paiono ormai in disuso.

È ormai un ritornello, lo dice sempre anche il procuratore Gratteri di Catanzaro, che ormai le mafie sono nulla di più che comitati d’affari. E i reati dovrebbero esser perseguiti più come reati economici che non di tipo “mafioso”. Ma il punto è che della mafia resta solo l’antimafia. In un articolo su La Stampa (ma quello di ieri è di Repubblica) del gennaio scorso il presidente del tribunale vaticano operava un distinguo non da poco tra i reati di mafia e quelli di corruzione. Contro i primi si deve “lottare”, sosteneva, per i secondi dovrebbero bastare le regole dello Stato di diritto. Se l’ex ministro Bonafede, è sottinteso (ma neanche tanto), con l’introduzione della legge “spazzacorrotti”, non avesse equiparato i due fenomeni. Che sono diversissimi perché quello della criminalità organizzata è un fenomeno deviante che va studiato e approfondito prima di poter essere combattuto, diceva il dottor Pignatone. Trasformando quindi il pubblico ministero in una sorta di soggetto multitasking. Più che sbirro, meglio sociologo, storiografo, storico. Anche psicologo, suggerisce Gratteri. Poco laico, in definitiva. Ma pur sempre guerriero, in lotta contro i fenomeni criminali.

Così succede che, mentre con la mano destra il giudice Pignatone scrive che Cosa nostra è morta, con la sinistra introduce i suoi “però”. E il però sta nella lotta antimafia come il baco sta nella mela. Pare turbato da un piccolo episodio che non dovrebbe preoccupare ma solo far ridere. Racconta dell’intercettazione recentissima di un boss che si lamenta perché la figlia di una sua amica aveva chiesto alla mamma di partecipare a una commemorazione di Giovanni Falcone. Ma stiamo parlando di un pericoloso criminale sanguinario o di Maria Montessori che discetta sull’educazione dei pargoli? Se un capomafia occupa il suo tempo a discettare sulle abitudini di una ragazzina, è proprio vero che Cosa nostra non c’è più.

L’antimafia rappresenta un po’ la nostalgia dei tempi andati, quando la lotta aveva un ruolo reale: loro sparavano e tu li arrestavi. Ma continuare oggi con questa insistenza da giapponesi nella giungla a guerra finita è un po’ patetico e un po’ ancoraggio a quello Stato Etico unico governatore del bene e del male che poi rimproveriamo ai Talebani, senza renderci conto di quanto ancora alberghi nella cultura di tanti magistrati, compreso Giuseppe Pignatone. Che è uomo di cultura, ma anche di potere. Se così non fosse non avrebbe avuto lunga vita al vertice della Procura di Roma.

Probabilmente non ci sarebbe neppure arrivato. Vero, Palamara? Se oggi neppure lui può mollare l’antimafia, è perché questa è diventata nel corso degli anni un vero partito, oltre che un centro di potere molto redditizio dal punto di vista politico. C’è la Commissione parlamentare il cui ruolo ormai consiste solo nel dare prebende sotto forma di consulenze a un po’ di magistrati, ma che controlla i partiti attraverso le liste elettorali. E poi c’è tutta la schiera dei pubblici ministeri “antimafia”, i più titolati a influenzare anche governo e Parlamento e a gestire processi come quello sulla “trattativa”. E a dare la benedizione del bollino blu. Un po’ come quello, ancor più obsoleto, dell’antifascismo.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.