Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la quarta di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

Negli anni sessanta mio padre e i miei zii cominciano la loro attività d’impresa nel settore edile e delle infrastrutture. Il fatto che degli operai siciliani, dopo anni di lavoro alle dipendenze di altri, si mettessero in proprio, riuscendo ad affermarsi come una solida realtà imprenditoriale dando lavoro nel periodo di massimo sviluppo a 200 persone, aveva suscitato il sospetto dell’Autorità Giudiziaria. Tutto ciò evidentemente si poteva spiegare solo con l’appoggio della mafia. In Sicilia chi nasce operaio deve morire operaio. Non è prevista la possibilità di migliorare le proprie condizioni sociali ed economiche con il duro lavoro. I miei familiari, senza saperlo, portavano addosso un’altra colpa: quella di essere originari di Marineo, piccolo paese vicino a Corleone. Questo faceva di loro dei soggetti posti sotto l’egida dei potenti boss corleonesi. In Sicilia il luogo d’origine e il nome di famiglia possono segnare il tuo destino. Luoghi e nomi si traducono spesso in indizi gravi e concordanti per condanne preventive – come di fatto sono sequestri e confische dei patrimoni – anche per fatti di nessuna rilevanza penale.

In un caso, visto che in Toscana si era registrata una partecipazione importante di imprese siciliane agli appalti pubblici, si ipotizzò un interessamento della mafia ai lavori in quella regione. Furono indagate più di duecento persone, tra cui i miei familiari, non per comprovati legami con la mafia, ma per essere semplicemente imprenditori siciliani. Tutto si risolse con un decreto di archiviazione. In un’altra occasione mio zio era stato accusato di favoreggiamento per non avere denunciato furti, danneggiamenti, richieste di pizzo nel periodo in cui opporsi alla mafia significava sottoscrivere la propria condanna a morte. La vicenda si concluse con una sentenza di assoluzione che riconobbe mio zio vittima e non complice della mafia. Le imprese della mia famiglia nel corso degli anni hanno subito furti, attentanti ed estorsioni. Lo stesso Brusca, parlando dei Virga, li definiva come degli imprenditori che non volevano accettare le condizioni della mafia, persone che non volevano pagare e che per questo subivano spesso danneggiamenti.

Un giorno mio padre, dopo essersi per l’ennesima volta opposto a richieste di pizzo, fu vittima di un tentato omicidio che, solo per miracolo, non si concretizzò in una vera e propria tragedia. L’episodio fu subito denunciato alle forze dell’ordine, con le quali cominciò un percorso di collaborazione fatto di denunce che portarono all’arresto di pericolosi esponenti della criminalità organizzata. Un percorso che fu coronato anche dagli encomi pubblici dei dirigenti della D.I.A. Tutto questo però non è stato sufficiente per far sì che la mia famiglia venisse riconosciuta estranea alla logica mafiosa. Mio padre negli anni duemila fu destinatario di una prima proposta di applicazione delle misure di prevenzione. La proposta fu rigettata.

Qualche anno dopo, la nostra famiglia fu oggetto di un’indagine per intestazione fittizia. Lo stesso dottor Di Matteo, titolare dell’accusa in quel procedimento, riconobbe che non c’erano i presupposti per andare a giudizio e neppure i sospetti per una misura di prevenzione. Il G.I.P., la dottoressa Saguto, archiviò tutto, accogliendo la richiesta dei Pubblici Ministeri. A questo punto, la vicenda ha dell’incredibile. Nel 2015, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, presieduta proprio dalla Saguto, su proposta della D.I.A., sequestrò tutto il nostro patrimonio, sulla base degli stessi identici indizi. I Virga furono considerati espressione degli interessi della mafia nel settore dei pubblici appalti. Il decreto era un acritico copia-incolla della proposta della D.I.A.

Quest’ultima era a sua volta un collage di alcune dichiarazioni (assolutamente prive di riscontro) rese da vari pentiti nell’arco di oltre trent’anni nell’ambito di processi in cui i miei familiari non erano neppure parte. Sono state usate contro di noi persino le dichiarazioni di un pentito che affermava che i Virga erano vittime di mafia. In un processo di prevenzione non si applica il principio del ne bis in idem, per cui ciascuno di noi, sulla base degli stessi indizi, può essere proposto per una misura di prevenzione all’infinito. Si dice che il giudicato di prevenzione opera “rebus sic stantibus”, un modo elegante per dire che tutto è a discrezione dei Giudici i quali possono fare un po’ come gli pare. La certezza del diritto è solo una pia illusione, proprio come il diritto di difesa. Il nostro sequestro fu pubblicizzato dai media come uno dei più importanti in Italia. La D.I.A. lo rivendicò come uno dei più grandi successi dello Stato nella lotta ai patrimoni mafiosi. Non si sa come, ma al nostro patrimonio fu attribuito un valore di un miliardo e mezzo di euro. Eravamo ricchissimi e non sapevamo di esserlo!
Qualche anno dopo, l’amministratore giudiziario avrebbe stimato un valore non superiore a 25 milioni di euro.

Oggi il Giudice che ha disposto il sequestro e l’ufficiale della D.I.A. che lo aveva richiesto sono sotto processo a Caltanissetta per reati gravissimi e noi ci siamo costituiti parte civile. Dalle intercettazioni, scopriamo che i Giudici avevano applicato il sequestro senza avere letto le carte. Per giunta, l’ufficiale della D.I.A. aveva proposto alla Saguto di fare lavorare in maniera occulta all’interno delle nostre aziende il marito di quest’ultima. Le nostre aziende oggi versano in stato di abbandono. Il primo amministratore giudiziario è stato revocato per gravi inadempienze dai giudici che hanno preso il posto della Saguto. Erano stati piazzati nelle nostre aziende decine di coadiutori che hanno aggravato i conti in maniera significativa. Per fare il sequestro è bastato un attimo, per decidere il merito del processo non bastano anni. Ad oggi non si è ancora concluso il primo grado di giudizio.

Siamo costretti ad assistere impotenti alla distruzione di quanto abbiamo creato con sacrifici nell’arco di due generazioni. Viviamo con grande difficoltà il presente. Guardiamo con estrema incertezza al futuro. Nonostante tutto, lottiamo per difendere la nostra dignità e i nostri diritti. E nel fare questo, ci sentiamo meno soli grazie a Nessuno tocchi Caino che rappresenta per noi una nave sicura in un mare in tempesta.