Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la prima di un ciclo di storie sulle vittime delle misure di prevenzione antimafia.

Quando l’incredibile si interseca con la realtà è allora che nascono storie come questa che ha coinvolto mio padre, in prima persona. Raccontarla non è semplice per me ma penso sia doveroso farlo. È sempre stato un uomo libero, Francesco Lena. Libero nel fare impresa, libero da legami equivoci, libero di realizzare quello in cui ha sempre creduto anche lontano da casa sua. Oggi è ancora più libero. Tre sentenze di assoluzione con formula piena “per non aver commesso il fatto”. Adesso anche il decreto della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che gli ha restituito l’azienda nella quale crede come una sua “creatura”. In tutto 2.860 giorni di calvario giudiziario che non si dimenticano facilmente. Non si dimenticano i titoli della grande stampa a poche ore dall’arresto, non si dimenticano tutti coloro che, fino al giorno prima amici fidatissimi, sono scappati come i topi di una nave che affonda.

Era un giovedì quel 10 giugno 2010, quando venne prelevato, all’alba e costretto in manette, dalla sua villa con le telecamere ed i flash in faccia. Ricordo il telefono che squillò alle 6 del mattino e l’espressione sul volto di mia moglie quando mi passò la cornetta. Ricordo la girandola di voci, telefonate, la lettura di tutte le pagine dell’ordinanza d’arresto seduto in cucina e la mia esclamazione finale: «se possono arrestarti per questo allora domani tutti possiamo essere arrestati!» Una vicenda che ricorda, con le dovute proporzioni, quella di Enzo Tortora. L’ingegnere, così lo chiamano per la laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Princeton, ripensando alla gogna mediatica subita abbozza un sorriso: «Non mi lamento. A Tortora è andata peggio». E continua: «Voglio raccontare la verità. Perché io sono innocente. Anzi, di più: sono una vittima. Una vittima di certa antimafia».

Le accuse mossegli sono condensate nell’inchiesta “Mafia e appalti”. I PM della Direzione distrettuale antimafia di Palermo ritengono che i suoi soldi siano sporchi. Il GIP firma il provvedimento di custodia cautelare. Il riassunto mette i brividi. Lena elemento organico della famiglia mafiosa del quartiere palermitano dell’Uditore. Lena in società con Salvatore Lo Piccolo. Lena prestanome di Bernardo Provenzano. «Tutto ha avuto inizio quel maledetto 10 giugno del 2010», racconta Francesco Lena. «Alle quattro del mattino, bussano: Polizia, siamo qui per lei, si tratta di mafia. Mia moglie Paola sorride: state scherzando? E l’agente: non c’è niente da ridere». «Mi sentivo come se quell’assurda esperienza stesse accadendo a un’altra persona. Prima mi portano al Pagliarelli, in isolamento. Poi vengono a prendermi».

Riprende la descrizione di quelle ore. «Mi trovo alla presenza del pm Nino Di Matteo, che fino ad allora non avevo mai sentito nominare. Questi inizia a pormi le sue domande. Spiego da dove vengono i miei soldi. Spiego che quei mafiosi che parlano di me nelle intercettazioni, io non li conosco. Del resto, questi personaggi parlano sì di me ma non parlano mai con me. E poi Salvatore Lo Piccolo che afferma il Pm sia stato mio socio. Non è il boss, ma un omonimo nato ad Agrigento nel 1912! Ci sono anche gli atti di compravendita di alcuni terreni a Palermo fatti proprio con i suoi eredi!». «Finito il racconto, il Pm si alza e dice: Non mi convince». «Mi crolla il mondo addosso». Finiscono i giorni del Pagliarelli, ecco i domiciliari ed il processo.

Alla vigilia della prima udienza, l’11 luglio 2011, il sindaco di Castelbuono, Mario Cicero (all’epoca del Pd, poi transitato in Sel), gli revoca la cittadinanza onoraria. Il processo di primo grado, svolto con il rito abbreviato, è agli sgoccioli. Il 19 settembre 2011 il Pm, che ha abbandonato il profilo della contestazione dell’aver fatto parte della famiglia mafiosa di Uditore, chiede 9 anni di reclusione per associazione mafiosa, oltre alla confisca dell’azienda.
«Rimasi sereno – riprende – il GUP mi guardò negli occhi. Ecco un uomo che mi tratta da uomo». La sentenza è di assoluzione. Assoluzione in Appello. Sigillo definitivo dalla Cassazione che chiosa nelle motivazioni definendo il processo di Appello “una doppia conforme” del processo di Primo grado.

La voglia di ritornare alla guida del timone è tanta: «Santa Anastasia deve essere il futuro per i giovani del paese». Il riferimento è al procedimento che si è concluso alla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, azzerata dopo lo scandalo che ha coinvolto i giudici che ne facevano parte e in particolare il suo ex presidente Silvana Saguto.
Dopo 8 anni di amministrazione giudiziaria, l’Abbazia – che produce vini fra i migliori in Sicilia, come il pluripremiato Litra – si trova in grande sofferenza economica. Mio padre non può risolvere da solo la crisi. Non può avere accesso al credito bancario perché nel frattempo la Procura ha impugnato il dissequestro e il processo di appello è ancora in corso.

E pensare che, durante l’amministrazione giudiziaria, in Abbazia si tenevano dei corsi di “alta formazione” per amministratori giudiziari: “Summer school”, li chiamavano, un nome sofisticato per nascondere delle vere e proprie messe in scena autocelebrative di una certa antimafia. Oggi l’Abbazia è diventato il luogo del riscatto imprenditoriale e civile. Qui si sono svolti due convegni del Partito radicale e di Nessuno tocchi Caino all’insegna dell’antimafia sciasciana, quella non della terribilità ma del diritto. “Historia magistra vitae”.

1 – Continua