Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la seconda di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

La nostra era un’azienda a conduzione familiare. Mio nonno la fondò nel 1932; oggi, con mia figlia Ester, siamo arrivati alla quarta generazione. Ci occupavamo di riciclaggio di rifiuti provenienti dalla raccolta differenziata e dalle industrie, con un moderno impianto di selezione. Davamo lavoro a 25 persone. Già, parlo al passato perché oggi la nostra attività non esiste più. Il nostro dramma comincia nel 2017, quando veniamo coinvolti, insieme ad altre cinquanta persone, in una maxi indagine della Direzione Investigativa Antimafia di Firenze. Venivo accusato di traffico illecito di rifiuti per un presunto “giro bolla”, sarebbe a dire la declassificazione (fittizia) del rifiuto che in realtà non c’è mai stata. Diffusasi la notizia del procedimento, vengono risolti i contratti con le discariche e i consorzi pubblici, perdiamo le commesse che avevamo ottenuto. È solo l’inizio della catastrofe.

Mentre ancora, a distanza di anni dall’inizio del procedimento, non sono stato neppure rinviato a giudizio, si abbatte sulla mia famiglia la calamità dell’interdittiva prefettizia antimafia, di cui fino ad allora ignoravo persino l’esistenza. In pratica, venivo accusato di avere tra i miei dipendenti due persone con dei precedenti penali. Secondo gli inquirenti, erano stati inviati dalla camorra per impadronirsi della nostra azienda. L’accusa ha dell’incredibile perché le persone in questione le avevo assunte proprio su segnalazione di un carabiniere del nucleo investigativo che mi aveva chiesto di aiutare un uomo in cerca di lavoro, da poco trasferitosi in Italia dalla Germania. Si trattava un uomo che per tutti gli anni di lavoro, aveva tenuto un comportamento davvero esemplare.

Qualche anno più tardi, assunsi anche il figlio, che in quel momento era ristretto in carcere. L’assunzione avvenne dopo la stipula di una convenzione con la casa circondariale della Spezia, ratificata dal magistrato di sorveglianza che ritenne il ragazzo un detenuto meritevole di reinserimento nel mondo del lavoro. Comunque, sia il padre che il figlio, al momento dell’interdittiva non facevano più parte del nostro organico. Vi è quindi da chiedersi in che modo avrebbero potuto condizionare la nostra attività. A nulla sono valsi i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato per i motivi difficilmente comprensibili per i quali – stento ancora a crederci – non si può sindacare la discrezionalità dell’atto del Prefetto. Come a dire che si può distruggere la vita di una persona senza un motivo, senza un presupposto certo, senza che ci si possa difendere effettivamente davanti a un giudice.

Mi fa veramente rabbrividire leggere nella sentenza del giudice amministrativo che «assicurare un posto di lavoro retribuito a una persona coinvolta nelle attività illecite assicura un riferimento stabile e potenzialmente equivoco con il mondo dell’economia illegale favorendo l’espandersi della criminalità nell’economia». Mi chiedo quanto deviata possa essere la mente umana per ritenere che impedire a un ex detenuto di reinserirsi legalmente nel mondo del lavoro costituisca una forma di “prevenzione” e non invece un’ulteriore condanna a commettere altri reati per vivere. Con l’interdittiva, le nostre aziende vengono praticamente condannate a morte certa. Iniziano le cancellazioni dagli albi professionali, ci viene revocata l’Autorizzazione Ambientale della Provincia, perdiamo gli appalti pubblici in corso, le gare vinte e i fidi delle banche. Siamo stati costretti a licenziare i nostri dipendenti e questo ci fa vivere con i sensi di colpa al pensiero quotidiano che decine di famiglie per bene si trovano in mezzo a una strada.

La dignità della mia famiglia è stata calpestata. Sulla base di un semplice sospetto, siamo stati condannati sui giornali con danni incalcolabili alla nostra reputazione di persone fino ad allora conosciute da generazioni solo per la serietà, la costanza e l’impegno nel lavoro. Il nostro calvario non è finito qua. Già, perché sempre per gli stessi sospetti, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Firenze, mi ha sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ritenendomi soggetto socialmente pericoloso. Devo rientrare entro le 22 e non posso uscire prima delle 7. Mi è stata pure revocata la patente. Suona come una vera e propria presa in giro l’ordine di darmi alla ricerca di un lavoro entro 30 giorni. Mi si dice di cercare lavoro, dopo che lo Stato mi ha tolto il lavoro per avere fatto lavorare due ex detenuti proprio su indicazione dello Stato!

Il Tribunale non mi ha concesso neppure il controllo giudiziario, cioè di essere affiancato da una sorta di commissario nominato dal tribunale, che mi avrebbe consentito di portare avanti la mia attività e di sospendere gli effetti dell’interdittiva. In pratica – faccio fatica a spiegare ciò che neppure io sono riuscito a capire – avendo io il 99 per cento della mia azienda, non avrei agevolato la camorra ma me stesso. Siccome il controllo giudiziario si può dare a chi ha agevolato occasionalmente la mafia, io, avendo agevolato solo me stesso, non posso beneficiare di questa misura e, quindi, la mia azienda deve essere condannata alla distruzione!

Di fatto viviamo immobili, in perdita, privati della libertà, in attesa, in una situazione surreale. Scontiamo una pena senza essere stati condannati, senza avere commesso un reato. Semplicemente per avere lavorato e dato lavoro. A fatica riesco a parlare della mia vicenda in pubblico. Solo di recente, grazie a Nessuno tocchi Caino, ho trovato il coraggio di parlare di qualcosa di tremendo che ha segnato per sempre la vita della mia famiglia. Lo faccio, non senza sofferenza, perché ritengo che occorra alzare la testa, rivendicare in ogni sede la propria innocenza e reagire all’oppressione. La gente non ha la minima idea di che cosa succede all’ombra di una certa antimafia che, prescindendo dalle prove, dai fatti e dai reati, può colpire brutalmente chiunque in qualsiasi momento, distruggendo il lavoro, l’impresa, la dignità dell’uomo e lo Stato di Diritto.