Morto a 48 anni
Storia di Francesco Di Dio, morto dopo 30 anni di carcere divorato dal diabete
Francesco Di Dio ha tolto il disturbo, se n’è andato in silenzio, senza lanciare un allarme. Solo nella sua cella del carcere di Opera, il cuore ha smesso di battere e si è addormentato per sempre. Lo immagino ancora vivo, disteso sul letto, con la sua faccia sempre serena e sorridente, rotonda come una luna piena. Aveva 48 anni ed era in prigione da 30. Soffriva di mali che un po’ la natura gli ha inflitto, ma che la galera, con il suo carico strutturale di dolore aggiuntivo, ha reso intollerabili, più gravi e irreversibili. Dei suoi decenni di pena e dei suoi dolori, Francesco non si è mai lamentato. I primi li ha accettati come un dovere, per i secondi a volte non veniva creduto. Come accade spesso in carcere, dove il luogo comune, anche contro ogni evidenza, è sempre lo stesso: il detenuto simula l’inesistente, manifesta l’inverosimile, proietta la propria malattia, per scamparla, per evadere da una realtà deprimente, mortifera. Nessuno vuole intendere che il carcere è di per sé dannoso, criminale e criminogeno, aggiunge dolore a dolore, odio a odio, violenza a violenza.
Francesco era altruista al punto da non considerare mai se stesso, il suo cuore che batteva a intermittenza irregolare, il suo respiro sempre colto d’affanno. Soprattutto il suo diabete, che si era incaricato di fare quello che il potere da tempo avrebbe dovuto e non aveva voluto fare: sospendere l’esecuzione della pena per gravi motivi di salute. Il diabete si era assunto la responsabilità di scarcerarlo un po’ alla volta, partendo dai piedi, amputati poco a poco, un pezzo oggi un pezzo domani. Finché non è “evaso” del tutto, uscito – come si dice – coi piedi davanti, con le parti rimaste. In piena pandemia aveva rifiutato un ricovero in ospedale, non si sa se per paura del colpo di grazia di un possibile contagio o per non occupare un posto letto che voleva lasciare libero per altri che lui riteneva più gravi di lui. Prima gli altri, avanti il prossimo, qualcuno che più di lui meritasse attenzione, soccorso, cura.
Era iscritto a Nessuno tocchi Caino e al Partito Radicale. Veniva ai laboratori Spes contra spem nel teatro di Opera, a volte in sedia a rotelle, a volte con le stampelle. Il suo modo d’essere lo portava sempre a pensare bene, a sentire e sentirsi bene, a fare del bene. Era l’incarnazione della speranza contro ogni ragionevole speranza. Ho conosciuto Francesco la prima volta nell’estate del 2002 durante un viaggio che con Maurizio Turco ci ha condotto a scoprire un mondo avvolto nel segreto di stato, le cayenne italiane del 41 bis, macabro monumento della lotta alla mafia e quintessenza dell’isolamento. Un totem sacro e intoccabile per l’antimafia di professione, quella giudiziaria e quella giornalistica, unite come un sol uomo nella gestione di un “negozio” che ha la sua bella e luccicante vetrina, ma anche un retrobottega brutto e cupo. Dove in vetrina è esposto il capo fine e nobile della lotta alla mafia, mentre nel retrobottega è stipata la mercanzia grossolana comunemente usata nella lotta alla mafia.
Tutti sono allineati e coperti alla necessità di conservare questo mondo. Nessuno che ricordi la “verità” elementare di Marco Pannella e la sua “lezione” di coerenza nonviolenta che ha sempre rifiutato la tragica dottrina ottocentesca del fine che giustifica i mezzi. Perché – diceva Marco – quel che accade è invece che i fini più nobili, idee sacrosante siano pregiudicati e distrutti dai mezzi sbagliati usati per conseguirli.
Solo di recente il dogma del carcere duro ha visto cadere alcune delle sue più disumane e insensate prescrizioni, grazie all’opera della Corte Costituzionale che, nell’ultimo anno, prima ha consentito la cottura di cibi in cella e poi la possibilità di condividerli tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Nel 2002 – rileggo nel libro Tortura Democratica, scritto all’esito del viaggio nei luoghi dove non alberga la speranza – Francesco Di Dio era detenuto nel Carcere di L’Aquila, aveva 30 anni, era in carcere dal 28 gennaio 1991, in 41 bis dal luglio 1992, condannato in via definitiva all’ergastolo per strage e omicidio. La strage era avvenuta a Gela nel novembre 1990, che causò 8 morti e 7 feriti nello scontro tra stidda e Cosa Nostra.
La stidda di Francesco era definitivamente caduta quando l’ho incontrato per la seconda volta. Era il 2015, c’era il Congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Opera dove le stelle cadenti degli stiddari violenti erano pronte, all’incontro con Marco Pannella, a diventare stelle comete che brillano di una luce interiore, la luce della coscienza, e illuminano una nuova via, finalmente orientata ai valori umani.
Con Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, Maria Brucale, Simona Giannetti, ogni mese, incontravamo Francesco Di Dio, che ha animato fino alla morte, il Laboratorio Spes contra spem di Opera, insieme a Orazio Paolello e a Gaetano Puzzangaro, lo “stiddaro” che un tempo causò la morte e ora è testimone nella causa di beatificazione di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”. Come loro, Francesco era cambiato, aveva scelto la nonviolenza. Il sistema carcerario, invece, è rimasto quel che è sempre stato, strutturalmente violento. E, di fronte alla violenza del carcere che lo ha recluso fino alla morte, Francesco ha scelto la via del diritto e della tolleranza.
Ha tolto il disturbo, si è liberato del carcere con una evasione innocente: se n’è andato di notte, nel sonno, senza procurare allarme ai suoi compagni, senza svegliare i suoi custodi, senza fare male a nessuno. Ancora una volta altruista, attento al prossimo. Un modo gentile per denunciare la durezza e la volgarità del carcere e della pena, un modo dolce di raccontare la banalità del male proprio del diritto penale che rispecchia in un modo eguale e contrario il male del delitto. Ciao Francesco, dedicheremo al ricordo di te il primo laboratorio di Spes contra Spem, appena torniamo a Opera, la fabbrica degli uomini rinati, dove Caino non abita più, è diventato costruttore di città.
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