Lucia, Liz e Annamaria. Tre storie paradigmatiche, tre casi giurisprudenziali che si legano all’esperienza del Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale. Sono storie di carcere, frammenti di umanità che si vanno ricomponendo. Sono il primo seguito ideale di quella straordinaria iniziativa della Corte costituzionale, di cui è data testimonianza nel docufilm di Fabio Cavalli. Lucia, nata con i caratteri sessuali maschili e all’anagrafe inizialmente iscritta con il nome di Luciano, si trova nel reparto “transgender” del carcere di Solliciano. Nel 2017 ha ottenuto dal Tribunale di Firenze la rettificazione delle generalità e del sesso sugli atti di stato civile e autorizzazione ad adeguare i caratteri sessuali mediante trattamento medico chirurgico. In questa fase di transizione – ad oggi l’intervento chirurgico non è stato effettuato – Lucia vorrebbe essere assegnata al reparto femminile.

È una delle domande che rivolge nel film alla giudice costituzionale Silvana Sciarra e che si trasforma in istanza (tecnicamente reclamo) al magistrato di sorveglianza. In primo grado il reclamo è rigettato, ma Lucia non demorde e contesta questa decisione, finalmente ottenendo giustizia dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze che il 18 febbraio 2020 ordina all’amministrazione penitenziaria di disporne l’assegnazione al reparto detentivo femminile, tra l’altro con specifica indicazione circa l’inderogabile necessità di rivolgersi alla detenuta Lucia al femminile e «con le modalità dovute ad una donna». Liz, giovane detenuta presso il carcere di Nisida, ha sulle spalle un provvedimento di espulsione da eseguire a fine pena. Chiede al giudice costituzionale Amato se sia giusto che dopo aver seguito un positivo percorso rieducativo debba tornare nella Repubblica Dominicana. La strada è in salita.

Occorre ottenere la revoca del provvedimento di espulsione, trovare una comunità che sia disposta ad ospitarla a fine pena, assicurare continuità all’esperienza lavorativa già intrapresa. Con una comprensibile ansia per il futuro, Liz racconta la sua storia a Giuliano Amato in occasione del Viaggio, in un pranzo a Nisida al quale sono presente. Si attiva una straordinaria e virtuosa collaborazione, che vede il coinvolgimento di alcune associazioni e di Gennaro, un mio ex studente, oggi affermato avvocato. Gennaro “trova” nel testo unico sull’immigrazione la norma giusta, che consente l’attivazione di un programma di protezione e il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari a favore delle persone straniere che durante la minore età abbiano commesso un reato punito con pena detentiva e che abbiano intrapreso positivamente un “programma di assistenza e integrazione sociale” sostenuto dai servizi sociali competenti o da una associazione accreditata. Il 21 marzo 2019 Liz ottiene giustizia, è libera e la sua strada comincia ad essere in discesa. Grazie, anzitutto, a Gennaro, che ai tempi dell’Università si sosteneva gli studi lavorando in una pizzeria e nei cui occhi avevo visto allora un’ansia per il futuro non troppo diversa da quella oggi propria di Liz.

Annamaria non è una detenuta. È la figlia ventunenne di una persona reclusa presso il carcere di Lecce. È affetta da idrocefalia, invalida al 100%. La mamma – il cui nome non viene detto nel film – racconta la sua storia alla giudice costituzionale Daria De Pretis, chiedendole se sia giusto che il nostro ordinamento le precluda di assistere sua figlia, che ha bisogno di lei almeno quanto un bambino in tenera età («non si sa lavare nemmeno le manine da sola»). La legge stabilisce, infatti, limiti legati all’età del figlio (dieci anni) per la concessione della detenzione domiciliare “speciale”, condizionando la stessa alla durata della pena. Questa volta la risposta viene dalla Corte costituzionale, con una sentenza del 14 febbraio 2020, della quale è redattrice la Presidente Marta Cartabia e che trae origine da vicenda analoga a quella raccontata nel film. La Corte afferma, finalmente, che le madri di figli gravemente disabili possono scontare la pena in detenzione domiciliare, quale che sia l’età del figlio e la durata della pena, sempre che il giudice non riscontri in concreto un pericolo per la sicurezza pubblica.

Per la mamma di Annamaria si apriranno probabilmente le porte del carcere. Ad avere giustizia, questa volta, è proprio Annamaria, figlia incolpevole, particolarmente bisognosa del rapporto quotidiano e delle cure della madre. Tre storie paradigmatiche, che contribuiscono a creare precedenti giurisprudenziali e che soprattutto ridanno alla pena la luce che la Costituzione vuole essa abbia. Una luce fatta di umanità e di rieducazione.