La paura del contagio, la ricerca ancor più affannosa degli affetti più cari e di una assistenza medica certa che doni un po’ di sicurezza. Oltre a quel po’ di calore in più necessario a stemperare il gelo tornato a stringere in una dura morsa anche la punta dello Stivale, Reggio Calabria, in questo insopportabile inizio di primavera.

Il panorama fosco e triste ce lo racconta Giovanna, nome di fantasia di una moglie di un detenuto, nemmeno trentenne, che sta crescendo due figli piccolissimi e ha deciso di lottare per la dignità del padre dei suoi bambini, senza paura di dichiararsi in realtà anche con il nome e il cognome veri di fronte al taccuino del cronista.

Le storie che lei riesce a tenere a portata di orecchio sono quelle della casa circondariale di Arghillà, nel capoluogo calabrese, dove il marito coetaneo è recluso in attesa di giudizio.

Il mio compagno – ci racconta – è stato arrestato il 16 dicembre scorso. Sono la prima a colpevolizzare chi sbaglia, in primis il padre dei miei bambini, però non posso restare zitta davanti alla situazione di disagio e degrado che risiede nel carcere in cui si trova”.

Per molti giorni, proprio nel passaggio delicato e complesso quale è l’esplosione di una pandemia, nell’istituto di pena calabrese inaugurato nel 2013, è mancato il responsabile sanitario, situazione fortunatamente rientrata in questi giorni – come ci conferma il Garante dei detenuti della Regione Calabria, avvocato Agostino Siviglia. “Proprio ad Arghillà non solo è tornato un coordinatore sanitario ma sono già arrivati tre infermieri h 24 che a giorni diventeranno otto”.

La nostra testimone ci racconta quindi la situazione legata al sovraffollamento, documentato fino a fine anno anche dai rapporti dell’associazione Antigone, che, tuttavia, stando agli ultimi dati disponibili, non è neppure annoverabile tra le situazioni peggiori che l’Italia conosce.

“Mio marito era fino a pochi giorni fa in una cella assieme ad altre sei persone. Da qualche giorno l’hanno messo in una con due soli posti letto. Per non parlare della mancanza d’acqua a giorni alterni (situazione purtroppo ancora drammaticamente comune in molti territorio del Mezzogiorno ndr) un bene primario. In questi giorni, poi, i detenuti stanno soffrendo il freddo perché, non essendoci acqua, i termosifoni sono praticamente fuori uso”. Passaggio, quest’ultimo, non confermato dal garante che ci dice di non aver ricevuto segnalazioni rispetto al funzionamento dell’impianto di riscaldamento.

“Nel dramma del momento peraltro – entra nello specifico l’avvocato Siviglia – sebbene Arghillà non sia certo un’isola felice, si può dire che la situazione sia tutto sommato sotto controllo grazie alla grande collaborazione tra direzione dell’istituto, giudici di sorveglianza e garante. Nonostante l’arrivo di 35 detenuti dalle carceri nei quali ci sono state rivolte, infatti, ad oggi nella casa circondariale di Reggio Calabria vi sono 296 persone sui 302 posti disponibili”.

Le telefonate ci sono e sono quotidiane “ma solo di tre minuti a testa” ci dice Giovanna. Le videochiamate in sostituzione della visita a cadenze di dieci giorni o più e sempre con i tempi contingentati.

Mio marito non vede i proprio figli da due mesi, io sono a casa con l’ansia di ricevere la notizia del contagio del mio compagno. Non sono qui nemmeno a chiedere la grazia al presidente Mattarella, perché è giusto che chi ha sbagliato paghi, non con la vita però. Chiedo quindi che almeno li mandino a casa fino a fine emergenza. Sono detenuti ma comunque esseri umani, non devono perdere la dignità e la salute. Sono padri di famiglia, figli di mamme col cuore in pena . Per favore, aiutateci . Ascoltate il nostro grido disperato”.

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