Don Raffaele Grimaldi, 62 anni, per 23 anni è stato cappellano a Secondigliano, Napoli. Alle realtà di frontiera ha fatto il callo, tanto da essere stato individuato da tre anni come coordinatore di tutti i cappellani carcerari. Ispettore Generale delle carceri: un ruolo di regia che interagisce con i 250 cappellani che operano in Italia. Da quando lunedì scorso, all’Angelus, papa Francesco ha dedicato una supplica a braccio in favore dei detenuti, si è sparsa la voce che sia sia stata una sua informativa a muovere le parole del Pontefice. Lui si schernisce. «Il Santo Padre ha sempre in grande considerazione i detenuti, e di informative ne riceve diverse. Incluse le lettere stesse di tanti di loro, che gli scrivono. E le lettere dei famigliari, o dei miei colleghi cappellani». Ma anche le sue informative, gli chiediamo. «Anche le mie informative, certo. I dati e le notizie che raccolgo girando l’Italia trovano sempre nella Santa Sede un interlocutore attento».
Il lavoro del cappellano dei cappellani, e del confessore dei confessori, non è facile, soprattutto se il terreno su cui ci si muove è quello sdrucciolevole della giustizia italiana. «Prima giravo l’Italia per incontrare e conoscere di persona, adesso sono confinato anche io. Allora mi attacco al telefono e cerco di chiamare un po’ tutti, a partire dalle case circondariali più importanti». Con una missione ben precisa: «Dobbiamo trasmettere speranza a coloro che l’hanno smarrita, far capire che c’è un orizzonte alla fine della pena, per tutti. Anche per chi ha la detenzione a vita: si deve trovare un senso all’esistenza con la spiritualità, gli affetti, lo studio, il lavoro».
Alla rieducazione in carcere tiene particolarmente. «Lo scopo rieducativo della pena va messo in primo piano. Sa che con i direttori delle carceri ci troviamo spesso in sintonia, su questi aspetti? Sono sempre più sensibili alla possibilità di trovare delle attività socialmente utili per la popolazione detenuta». Forse più loro che la politica, le istituzioni. «La politica è fatta dalle persone, noi parliamo al cuore degli uomini e non ai partiti». Quando dice noi, Don Raffaele parla di «tutte le diocesi di Italia, perché sotto la diocesi di ogni Vescovo vengono raccolgono le grida di dolore che si levano dalle carceri. La Chiesa italiana è in ascolto di chi soffre, e raramente si soffre tanto come in stato di detenzione». Torniamo alla politica, che è fatta di uomini, e si spera di uomini in ascolto. Perché c’è un appello che Don Raffaele indirizza al decisore pubblico. «Le carceri sovraffollate sono luoghi in cui la pena risulta raddoppiata: al problema del tempo si aggiunge quello dello spazio. Tanto tempo sospeso, in spazi angusti, con questo terribile incubo del Covid-19 che incombe».
E dunque? «Auspico un atto di misericordia e di clemenza. Abbiate misericordia, chi sta in carcere oggi rischia la vita. Incoraggio chi ha responsabilità pubbliche a compiere delle scelte umanitarie. Non si può mettere in pericolo la vita delle persone, che è un bene superiore». Un atto di clemenza e di misericordia, come quello esortato quindici anni fa dalle parole di San Giovanni Paolo II. Don Raffaele ne ha parlato anche alla comunità carceraria tramite una lettera aperta: «Ho scritto un appello alla responsabilità di tutti, chiedendo anche ai detenuti di astenersi dai comportamenti violenti. Un dialogo aperto tra le parti, ecco la missione più profonda della Chiesa nei luoghi dove c’è sofferenza».
Con il Ministro Bonafede si sono incontrati già due volte. «È venuto anche lui a trovarmi nel mio ufficio», racconta. Poi però di iniziative concrete non se ne sono viste. Umanamente comprendo le difficoltà che un ministro, come quello della giustizia, si trova oggi ad affrontare. I problemi sono oggettivi. Fanno bene le associazioni di volontariato che stimolano il governo a fare di più». Fa però suo il grido di allarme di Papa Francesco. «Noi tutti ci uniamo alla preghiera del Santo Padre. La giustizia è tale se conosce la clemenza. Si torni a dare attenzione alla persona: chi ha sbagliato deve essere messo in condizione di rialzarsi».
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