Sette detenuti morti, interi istituti e molte sezioni inagibili: è questo il primo bilancio dell’ondata di proteste che sta attraversando le carceri italiane, dal Nord al Sud. Il detonatore della protesta è stata la prima bozza del decreto-legge che minacciava di sospendere i colloqui con i familiari, in tutta Italia, fino al 31 di maggio. Poi il decreto effettivamente approvato si è limitato al 22 marzo, ma ormai la frittata era fatta: detenuti sui tetti, materassi bruciati, vetri rotti, qualche ostaggio e l’infermeria di Modena, dove – secondo le ricostruzioni del Dap – da due a sei detenuti si sarebbero approvvigionati di sostanze che gli sarebbero state letali.

Naturalmente forme e modalità della protesta possono essere legittimamente condannate, soprattutto quando mettano a rischio l’incolumità fisica delle persone, degli agenti, del personale sanitario e degli stessi detenuti coinvolti nella protesta. Ma di fronte a quello che sta accadendo non ci si può fermare alla superficie delle cose o farne una questione – appunto – di forme. Al di sotto delle forme ci sono enormi problemi, su cui i detenuti hanno le loro buone ragioni. A partire dalla gestione della emergenza coronavirus in carcere. Da tre settimane è un susseguirsi di provvedimenti più o meno restrittivi dei diritti dei detenuti e di accesso dei familiari e del volontariato in carcere, fino alla chiusura dei colloqui su tutto il territorio nazionale per due settimane. Intanto, nessuna vera informazione è stata fatta in carcere, né su questi provvedimenti, né sui rischi reali e sulla prevenzione necessaria alla diffusione del virus. E nessuna misura di prevenzione è stata presa nei confronti degli operatori penitenziari e sanitari che accedono a decine, tutti i giorni, in ogni carcere. Sembra quasi che il virus in carcere lo possano portare solo i parenti dei detenuti, i detenuti in permesso e i volontari, secondo uno stereotipo stigmatizzante del mondo carcerario che in questo caso non ha proprio alcuna fondatezza scientifica.

Di fronte a questa approssimazione, è comprensibile che i detenuti al primo stormir di foglie (qualche isolamento molto precauzionale, la minaccia di perdere i colloqui) abbiano temuto di restare ingabbiati in carcere a combattere con il virus nelle loro sezioni sovraffollate. Poi ci sarà anche qualcuno che ci marcia, ma la paura è reale. Che succederà quando i primi casi di positività in carcere dovessero costringere alla quarantena tutte le persone che fossero venute in contatto con loro? Immaginate una sezione con cinquanta o cento detenuti: se un detenuto, o un agente di sezione, dovessero risultare positivi, dove vanno a finire tutti gli altri? Il Dap ha chiesto a tutti gli istituti di individuare spazi destinati all’isolamento sanitario di coloro che devono andare in quarantena. E gli istituti hanno individuato le solite sezioni per i nuovi giunti: cinque, dieci stanze per ciascuno. E che si farà quando bisognerà mettere in isolamento i quarantanove compagni di sezione dell’unico positivo? Dove li si metterà.

No, non c’è nessuna strumentalità nella richiesta di provvedimenti deflattivi della popolazione detenuta. Se il virus non si ferma, le carceri vanno svuotate. La via maestra è quella di un provvedimento di amnistia-indulto, anche solo di uno o due anni, sufficiente a far uscire dal carcere dalle dieci alle ventimila persone. Se le forze politiche non dovessero avere questo coraggio, si potranno studiare applicazioni straordinarie di misure già esistenti, come fu per la liberazione anticipata speciale dopo la condanna del sovraffollamento a opera della Corte europea per i diritti umani. O ancora incentivi alla detenzione domiciliare. Le carceri italiane sono piene di detenuti che scontano o che sono a pochi mesi dal fine pena: perché non consentire loro di scontare la pena fuori dal carcere, in modo da garantire le minime condizioni di salute e di prevenzione a chi dovesse rimanere dentro? Queste sono le domande che le proteste di questi giorni ci pongono, a queste domande bisogna dare risposta. Subito.