Li chiamano istituti di pena. La burocrazia usa parole lievi. Sono prigioni. Sono il luogo peggiore che esiste nella società moderna. Dentro la prigione non sei più nessuno. Perdi la libertà, la dignità, i diritti, gli affetti, i rapporti sociali. Le prigioni sono un inferno, una prova di sadismo di massa. Forse andrebbero abolite, sicuramente riformate radicalmente.

Nelle prigioni italiane giacciono più di 60 mila persone. Stipate strette strette, perché non ci sono posti sufficienti. Le ultime leggi, volute principalmente dalla pattuglia combattiva e reazionaria dei 5 stelle, hanno aumentato il numero dei detenuti. Hanno reso più facile l’ingresso in carcere, più lunghe le condanne, più difficili le uscite. Le previsioni dicono che l’ampiezza delle carceri non aumenterà nei prossimi due o tre anni, ma il numero dei prigionieri, se non interviene qualche riforma di tipo garantista, potrebbe arrivare a 70 mila e magari di più. Sarà l’iradiddio, se nessuno interviene.

È in questo clima che la situazione è precipitata. La frustrazione dei detenuti è aumentata con il dilagare del coronavirus e con le nuove misure di sicurezza, imposte dall’autorità carceraria, che riducono i contatti con l’esterno, proibiscono la visita dei familiari, limitano l’apertura delle celle.

Sabato sera è iniziata la rivolta. Prima Modena e Frosinone, poi tutte le altre prigioni. Ventisette, tra domenica e lunedì. L’ultima ad esplodere è stata Regina Coeli, la prigione più famosa e una delle più antiche. Un edificio del Seicento, sotto al Gianicolo. Centinaia di detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio o di appello, per metà stranieri. Anche loro si sono ribellati, son saliti sui tetti, è iniziato un pandemonio. Regina Coeli è proprio nel centro di Roma, poche centinaia di metri da San Pietro e nel pieno del rione Trastevere, uno dei più romaneschi e vecchi quartieri della capitale. Fino a ieri sera è stato uno sfrecciare di macchine della polizia, urla, botti, esplosioni.

È quasi impossibile ancora fare un bilancio di queste due giornate. Almeno sette morti. Tutti al carcere di Modena. Alcuni detenuti sono morti dentro il carcere, altri mentre venivano trasferiti. I responsabili del carcere dicono che sono morti per overdose, dopo aver assaltato l’infermeria. La Procura però ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo contro ignoti. La situazione è ancora molto molto confusa, è difficile capire cosa sia successo, ma sette morti non possono passare sotto silenzio. È un prezzo altissimo, davvero altissimo a una politica carceraria dissennata.

A Foggia c’è stata addirittura una evasione di massa. 50 prigionieri sono fuggiti dal carcere, poi 37 sono stati catturati di nuovo dalla polizia, gli altri 13 sono alla macchia. Anche all’Ucciardone di Palermo c’è stato un tentativo di evasione, ma sembra che sia fallito. Tra le prigioni in rivolta c’è San Vittore, a Milano, cioè nella città più colpita dal virus.

Naturalmente la rivolta è confusa, spontanea, non ha un disegno. Sono apparsi degli striscioni che inneggiano all’indulto, ma quello dei detenuti non è un movimento politico compatto, non ha struttura, non ha strategia, non ha direzione. E tuttavia non si può non prendere atto del fatto che dopo tanti e tanti anni di calma nelle prigioni è tornato a divampare l’incendio. Che ci riporta indietro. Ai tempi degli anni di piombo, delle carceri speciali, delle sommosse. Poi intervenne la politica e riuscì, in quel periodo di ferro e fuoco, a varare leggi liberali. Ci fu la riforma del ‘75, approvata mentre la lotta armata iniziava a insanguinare l’Italia e l’indice della criminalità era cinque o dieci volte più alto di oggi, e poi la riforma Gozzini, quella che liberalizza il carcere, aumenta i permessi, i premi, le semilibertà, che è del 1986, quando il terrorismo mieteva ancora decine di vittime ogni mese, e la mafia era scatenata in Sicilia.

Mario Gozzini, un intellettuale cattolico molto prestigioso, era un parlamentare dell’opposizione. Il governo era un governo di centrosinistra guidato da Bettino Craxi ma la legge che riduce la barbarie carceraria la firmò un parlamentare dell’opposizione. Mario Gozzini era stato eletto dal Pci. Ed era passato appena un anno dal referendum sulla scala mobile che aveva portato a livelli altissimi la tensione politica tra maggioranza e opposizione. Soprattutto tra Psi e Pci. Eppure allora la politica era un’altra cosa. Su alcuni temi si poteva collaborare. E non c’era il terrore di indispettire i populisti, i giustizialisti. Se non ricordo male solo il Msi si oppose alle leggi libertarie di Gozzini.

Oggi? L’indice della delinquenza è crollato, la lotta armata non esiste più, la mafia, in gran parte, è piegata, o comunque ha abbassato moltissimo il livello della sua violenza. E invece il numero dei detenuti è quasi raddoppiato da allora, e ogni legge, o decreto, o regolamento, o ordinanza che viene varato è per rendere più duro il carcere, più rigorosa la certezza della pena. Nonostante i coraggiosi interventi della Presidente della Corte Costituzionale che ci ha spiegato, recentemente, che la pena deve essere flessibile, perché così dice la Costituzione.

Ieri anche le Camere penali hanno chiesto l’amnistia e l’indulto. E contemporaneamente hanno chiesto misure che consentano la scarcerazione dei detenuti con modesti residui di pena e i domiciliari per gran parte dei detenuti in carcerazione preventiva. E il ministro? Ha pronunciato qualche smozzicone di frase fatta, tipo che con la violenza non si ottiene niente. Già, verissimo. Come è vero che con una folle politica giustizialista l’unica cosa che si ottiene è lo scatenarsi della violenza.

Avatar photo

Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.