Misure alternative
A Papa Wojtyla sarebbero piaciuti segni di clemenza come amnistia e indulto
Gentile direttore,
le immagini di gravi disordini in numerosi istituti penitenziari italiani trasmesse in queste ore dai media, e riprese anche a livello internazionale, hanno fatto nuovamente balzare all’onore della cronaca il tema della condizione dei detenuti nelle nostre carceri. Da quanto si apprende, pare che l’elemento scatenante delle rivolte sia da ravvisarsi nelle misure di prevenzione disposte per il contenimento del contagio da Coronavirus ed, in particolare, la drastica limitazione dei colloqui. Tale situazione sta venendo costantemente monitorata dal Consiglio d’Europa attraverso l’organismo del Gruppo di lavoro del Consiglio di cooperazione penologico (WG PC-CP). Questo organismo, composto da nove membri – fra cui la sottoscritta – eletti dai rappresentanti dei quarantasette Paesi aderenti al Consiglio d’Europa, si occupa di predisporre i progetti di Raccomandazione in materia di “prison” e di “probation”.
Per il nostro lavoro, che dovrà poi essere approvato da parte del Comitato dei ministri, ci avvaliamo di esperti qualificati provenienti da tutto il mondo. Il prossimo mese di giugno, a Dublino, terremo la 25esima Conferenza dei direttori dei servizi penitenziari e di probation che avrà una sessione speciale sulla revisione delle Regole Penitenziarie Europee. Il monitoraggio sulla realtà italiana si è avviato all’indomani della sentenza “Torreggiani” del 2013 con cui la Corte Edu condannò l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Segnalo alcuni aspetti.
In primo luogo, la vetustà della gran parte delle nostre strutture penitenziarie, edificate quando la pena aveva essenzialmente finalità afflittive, è una delle oggettive criticità del sistema. La maggior parte degli istituti risale all’800: il carcere milanese di San Vittore venne edificato nel 1872, quello romano di Regina Coeli nel 1880, il palermitano Ucciardone nel 1840. Altro aspetto significativo della realtà italiana riguarda il sovraffollamento, un problema “strutturale” stigmatizzato dalla Corte Edu a cui il Governo con la legge n. 117 del 2014 rispose attraverso vari strumenti: dalla liberazione anticipata speciale, ai rimedi risarcitori per la detenzione inumana o degradante. Va evidenziata, ancora, la composizione della nostra popolazione detenuta, costituita da un largo numero di persone sottoposte a misura cautelare, i cd “non definitivi”, non sottoposti ad alcun trattamento in detenzione.
Il Consiglio d’Europa ha concentrato negli ultimi tempi la sua attenzione proprio sul probation, vale a dire sulla pena da scontare in forme diverse dalla detenzione in carcere: per il nostro ordinamento, la messa alla prova, le misure alternative alla detenzione quali l’affidamento e la detenzione domiciliare. In questa direzione si colloca la Raccomandazione CM/Rec (2017) 3 sulle sanzioni e misure applicate nella comunità. Nello stesso senso, il PC-CP ha licenziato il progetto di revisione delle Regole penitenziarie europee, risalenti al 2006, per conformarle alla giurisprudenza sviluppata dalla Corte di Strasburgo. L’esortazione che ne emerge per il Legislatore italiano e dei restanti Paesi del Consiglio d’Europa, è, dunque, quella di ricorrere a misure di esecuzione della pena nel sistema appunto di probation, «un importante mezzo di lotta contro la criminalità, che riduce il pericolo di recidiva e contiene gli effetti negativi della detenzione, sia essa provvisoria che definitiva», come si legge nella Raccomandazione di cui sopra.
Il probation richiede uno sforzo organizzativo tale che per essere efficace potrebbe necessitare di un previo segno di clemenza «capace di incoraggiare l’impegno del pentimento e di sollecitare il personale ravvedimento», per usare le parole di San Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo delle carceri il 9 luglio del 2000. Argomento, quello dell’ammistia e dell’indulto, su cui il suo giornale sta raccogliendo ultimamente contributi.
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