«Mio padre è morto da solo, senza potersi difendere e senza il nostro abbraccio». A parlare, in una accorata lettera, è Domenico Ribecco, figlio di Antonio, morto a 58 anni di Covid-19 mentre era detenuto nel carcere di Voghera.
Come una macabra premonizione, un nome impresso nella sorte, l’operazione “infectio” della Dda di Catanzaro del dicembre scorso lo aveva fatto finire in manette insieme ad altre 22 persone, accusate a vario titolo di essere i volti del mosaico delle infiltrazioni criminali della ‘ndrangheta in Umbria. Di “infectio” viene arrestato, di “infectio” muore a tre mesi di distanza.

Antonio Ribecco è originario di Cutro ma vive da oltre 25 anni a Perugia, dove fa l’imbianchino. Il 12 dicembre, racconta il figlio 28enne, «finisce in isolamento nel carcere di Capanne per 9 giorni, poi viene trasferito a Voghera. Lo abbiamo rivisto il 3 gennaio. Ci ha detto che aveva chiesto di essere trasferito di nuovo in Umbria, per essere più vicino a noi e a mia sorella non vedente. Ma così non è stato». L’ultima volta che Domenico ha visto suo padre vivo è stato il 15 febbraio. Due settimane dopo, Antonio ha la febbre ma nessuno immagina che si tratti di Coronavirus. «Anche se il virus continua ad aggredirlo – racconta Domenico – ci dice di stare meglio per tranquillizzarci anche se nessuno lo ha ancora visitato. Tanto che una guardia penitenziaria fa una lettera di richiamo al medico. Tutti fatti raccontati da mio padre, prima al telefono e poi in una lettera che dice di averci spedito che però non ci è mai arrivata».

La situazione precipita: Ribecco viene ricoverato il 21 marzo in terapia intensiva al San Paolo di Milano e poi al San Carlo. Il 9 aprile la notizia della sua morte. Dall’aggressione del Covid-19 al decesso c’è un tempo sospeso di venti giorni, fatto di silenzi e angoscia. «Solo dopo ripetute telefonate riusciamo a sapere cosa sta accadendo – prosegue il figlio del 58enne – anche se non abbiamo mai capito se mio padre abbia ricevuto le cure adeguate. Vogliamo sapere solo la verità sulla sua morte». Intanto, i legali del detenuto calabrese, Gaetano Figoli del foro di Roma e Giuseppe Alfì del foro di Perugia, hanno sporto una denuncia alla Procura di Pavia perché accerti le condotte tenute dal personale del carcere lombardo e verifichi se vi siano stati comportamenti colposi e omissivi. Quello che è certo è che la furia distruttrice del Covid in carcere fa ancora più paura e che la scelta di fare i tamponi è stata fatta solo in alcuni penitenziari. «Per fronteggiare l’emergenza Coronavirus non c’è stata una procedura comune negli istituti di pena, o comunque un piano sanitario per effettuare i tamponi – fa notare l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane – ma solo iniziative singole».

Finora i morti accertati di Covid-19 in carcere sono stati due, entrambi sottoposti a misura cautelare ed entrambi accusati di reati ostativi: Ribecco e un 76enne siciliano che era detenuto alla “Dozza” di Bologna. Due storie che «portano a fare delle riflessioni – aggiunge Catanzariti -; la prima: il Coronavirus non fa distinzione tra soggetti in espiazione pena e quelli in misura cautelare. La sua furia distruttrice non fa nemmeno differenze tra reati ostativi e reati comuni. Un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio.

Ma la riflessione più importante è che la privazione della libertà, giusta o sbagliata che sia, impone un dovere di tutela specifica in chi l’ha disposta. Se lo Stato non protegge il diritto alla salute di chi è in sua custodia, il passo verso la tortura ed i trattamenti inumani è davvero breve». E il carcere è una «Istituzione totale», fa notare il professor Francisco Mele, psicanalista e criminologo, «perché l’individuo dorme, lavora, mangia, vive in un unico spazio. Tutti noi nasciamo, viviamo e moriamo nelle Istituzioni, che ci forniscono una identità.

Il Coronavirus ha messo in discussione tutto il sistema che riguarda la disciplina attraverso la quale una persona entra e vive nelle Istituzioni. In quella Istituzione totale e anonima che è il carcere, il limbo dell’attesa di giudizio si è trasformato in morte». Una morte, conclude Mele, «di fronte alla quale tutti siamo soli, ancor di più quando non c’è una mano o un volto di conforto. Anche in carcere».