Tra i fattori determinanti per la diffusione del “coronavirus” gli esperti indicano l’omessa e tardiva informazione, il mancato ascolto delle autorità sanitarie, il ritardo nei piani operativi di prevenzione, l’inerzia nell’azione immediata di contrasto e controllo della linea del contagio. A ciò non sfugge, purtroppo, il mondo carcerario, già gravato da uno strutturale sovraffollamento, pur negato, in maniera tragicomica, dall’amministrazione penitenziaria (un anno fa il capo del Dap, Basentini, affermava che gli istituti penitenziari avrebbero potuto ospitare “molto di più” dei 60.000 di allora!).

Da qui continui richiami, appelli, proposte, solleciti di tutti gli operatori di settore al Ministro, al Governo, alle forze in Parlamento per una urgenza non più differibile: ridurre drasticamente il carico umano delle nostre carceri.
Consapevoli che ricondurre la popolazione detentiva alla capienza effettiva (poco più di 47.500 posti per 57.405 detenuti) non è solo una doverosa tutela della salute di centinaia di migliaia di persone che gravitano attorno al carcere. Rappresenta l’unica azione che può disinnescare una bomba epidemiologica che, una volta esplosa, produrrà effetti devastanti su tutta la comunità nazionale già gravata dal peso della lotta al “coronavirus”. Da ultimo, Papa Francesco, nella consueta preghiera di domenica scorsa, in solitaria, ha auspicato “misure necessarie per evitare tragedie future nelle carceri”.

Ad oggi, purtroppo, solo silenzi, omissioni, mancanza di programmazione e soprattutto inerzie paurose di un Governo, preoccupato solo di “percorsi moderati ed accorte soluzioni” per alleggerire la concentrazione della popolazione penitenziaria. Una condotta irresponsabile che ha registrato, secondo quanto dichiarato alla Camera dal ministro Bonafede, la fuoriuscita dal circuito penitenziario di soli 50 detenuti. Il tutto condito da scarsa informazione e trasparenza che non serve certo a tranquillizzare soprattutto chi opera dentro un carcere e chi vi si trova ristretto.
Rincorriamo notizie allarmanti, indiscrezioni, filtrate qua e là, dai vari penitenziari, dalle lettere e telefonate dei familiari dei detenuti impauriti dal silenzio dei loro cari, rompendo così l’invalicabile muro di gomma carcerario.

Nemmeno un report trasparente ed ufficiale del DAP. Solo agenzie di stampa che segnalano 116 contagiati tra appartenenti alla polizia penitenziaria, 19 detenuti (anche se la sommatoria dalle varie regioni ci inducono a ipotizzare siano molto di più), diversi cappellani, medici ed infermieri. Alcuni purtroppo caduti per mano di un virus che si alimenta e diffonde proprio nel carcere, luogo più di ogni altro ricettacolo di infezione in ragione della sua alta densità umana. Si gioca sui numeri dei 900 braccialetti circa ad oggi disponibili, secondo notizie filtrate dal Dap, del tutto insufficienti a disinnescare la bomba. Senza nemmeno sapere quanti davvero, in ragione di un decreto-capestro, potranno andare in isolamento detentivo al domicilio.

Il rischio di vedere vanificate le misure restrittive, sinora imposte dagli Stati europei alle rispettive popolazioni, ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità – Europa (Oms) a diffondere, un dossier davvero interessante dal titolo “Preparedness, prevention and control of Covid-19 in prisons and other places of detention”, secondo cui “la prevenzione dell’ingresso del virus nelle carceri è essenziale per evitare o ridurre al minimo il verificarsi di infezioni e di gravi focolai in questi luoghi e fuori di essi”. Nei paesi, come il nostro, ad alta intensità di contagio “l’approccio fondamentale da seguire è la prevenzione dell’introduzione della malattia infettiva nelle carceri” per il rischio di una drammatica diffusione dalla “prigione alla comunità esterna”.

“La naturale evoluzione di focolai infettivi di proporzioni epidemiche o pandemiche, localmente, a livello nazionale e globale, presenta un potenziale impatto sulla sicurezza, sul più vasto sistema giudiziario fino a minare l’ordine civile e democratico della comunità esterna”. Anche secondo l’Oms, quindi, occorre fare subito e fare bene, perché proprio nei luoghi di detenzione le condizioni di “stretta prossimità” inducono l’abbassamento delle difese immunitarie e, con la violazione dei diritti umani incomprimibili, la facile trasmissibilità del virus all’interno ed all’esterno.

Occorre prestare – così si legge – “la massima attenzione al ricorso a misure non detentive, in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale, anche durante il processo e dopo la condanna”, dando priorità alle misure non detentive per i “presunti colpevoli” ovvero coloro che, in custodia cautelare, sono in attesa di un giudizio definitivo. Un rapporto ricco di prescrizioni da osservare presto se vogliamo evitare la catastrofe del contagio, che non distingue tra condannati e detenuti in attesa di giudizio e che rischia di diventare un vero e proprio “contagio di Stato”.

 

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