Caro direttore, come milioni di italiani ho guardato l’altra sera su Rai1 Musica che unisce, spettacolo offerto da tanti artisti italiani per raccogliere fondi in favore della Protezione civile e trascorrere qualche ora lieta in un momento in cui non possiamo uscire da casa, tanto meno per assistere a un concerto o a un evento culturale. Mi è sembrata una bella iniziativa e ho pensato a quando, come Regione, organizzavamo – grazie alla straordinaria generosità di tanti artisti romani – i concerti nelle carceri del Lazio.

Ricordo, in particolare, l’entusiastica partecipazione dei detenuti di Regina Coeli al concerto di Franco Califano.
“Facce La Libertà”, chiedevano in continuazione al compianto Califfo centinaia di detenuti assiepati nell’androne o affacciati dietro le sbarre delle balconate, mentre lui prendeva tempo, esitava; sapeva che l’attesa avrebbe reso ancora più intensa e partecipata quella che, più di una canzone, in quel contesto rappresentava un inno, l’evocazione di un sogno agognato e proibito. Parliamo di una canzone in cui si dice, tra l’altro, che la libertà “va trattata con i guanti”, cioè con il massimo rispetto.

Quel sogno però oggi è un incubo visto che i detenuti non possono permettersi quel “distanziamento sociale” che a noi – donne e uomini liberi – è imposto dalla legge. Sono rinchiusi in spazi angusti che una burocrazia imbecille pretende di considerare “a norma” conteggiando pretestuosamente i letti nel computo dei metri quadri che dovrebbero spettare a ogni carcerato per garantire una detenzione dignitosa. Una gran parte della popolazione carceraria italiana è in attesa di giudizio e quindi probabilmente innocente o comunque in attesa che lo Stato dimostri il contrario.

Ma lo Stato non sembra avere fretta di farlo, neppure di fronte al rischio che l’estrema promiscuità cui sono costrette donne e uomini, colpevoli o innocenti non ha alcuna importanza, possa favorire il contagio di questo micidiale virus che sta uccidendo migliaia di persone “libere”.  Alcune settimane fa in tanti istituti di pena questo timore – associato alle restrizioni alle visite dei familiari attuate dalla Amministrazione penitenziaria -, ha suscitato una serie di rivolte culminate in qualcosa di mai visto prima se non nelle cronache di qualche Paese dell’America del Sud: la morte di quattordici detenuti.

Ci vorranno mesi per conoscere le cause di quei decessi ma non sarebbe dovuto trascorrere nemmeno un giorno, dallo scoppio di questa emergenza, per convincere il ministro di Giustizia (sic!), in primis, e poi il Governo, le Camere e infine il Quirinale, a liberare quanti più detenuti possibile. Ci sono oltre centomila italiani, detenuti e detenenti, più le rispettive famiglie, che rischiano ogni giorno di essere contagiati e il numero di chi è stato già raggiunto dal virus, come spiegava bene sul suo giornale ieri, è già allarmante.

Nel frattempo i tribunali sono chiusi, la giustizia sospesa, gli avvocati impossibilitati a fare il proprio lavoro.
Sono sorpresa e amareggiata dalla insensibilità della classe politica italiana: ne ho parlato in questi giorni alla Camera con alcuni colleghi, ugualmente impegnati in questa battaglia, come l’ex ministro Orlando, e ho sottoscritto l’iniziativa degli amici radicali Sergio D’Elia e Rita Bernardini per chiedere subito amnistia e indulto.

Mi conforta la battaglia quotidiana che il Suo giornale conduce in splendida solitudine per non consentire che continui il sonno della ragione che sembra aver colpito intellettuali e politici di questo Paese; un Paese che dovrebbe essere la culla del diritto ma dimentica che non si può togliere contemporaneamente la libertà, la dignità e persino la vita ai propri concittadini. Nel dibattito sulla fiducia al Conte2 ho chiesto al presidente del Consiglio, mi sembra unica tra gli intervenuti, una attenzione speciale per i detenuti.

Giuseppe Conte, nella sua replica, mi ha ricordato le (poche, per la verità) cose fatte dal Conte1 e assicurato l’impegno del nuovo Governo a “fare” qualcosa per il futuro; bene, il futuro è arrivato e non può più essere coniugato come un “futuro semplice”: è ora che diventi “futuro imperativo”.

 

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