Lo scontro
Di Matteo, il Pm contro le norme del governo che vuole solo la galera
Magistrati coraggiosi o magistrati ossessionati? Se non c’è la “trattativa Stato-mafia”, c’è il «cedimento dello Stato di fronte a un ricatto». Il protagonista è sempre lui, Nino Di Matteo, colui che faceva parte del pool di accusatori quando fu costruito il finto pentito Scarantino, colui che poi lottò contro i mulini a vento di un’inesistente patto scellerato tra uomini di governo e uomini d’onore, e infine, esausto da tanto lottare, planò al Csm. Ed è in questa sede, nel plenum che avrebbe dovuto discutere di come salvare la vita dei detenuti dal coronavirus, che ieri Di Matteo ha gridato «in galeeera!», come faceva da un altro palcoscenico Giorgio Bracardi negli anni Novanta a Striscia la notizia.
Il timidissimo provvedimento del governo che consente la (teorica, perché condizionata agli inesistenti braccialetti) scarcerazione ai detenuti che devono ancora scontare 18 mesi di carcere, agli occhi di Di Matteo «è particolarmente grave e rischia di apparire come un cedimento dello Stato di fronte a un ricatto, soprattutto agli occhi della popolazione detenuta e delle organizzazioni criminali che hanno organizzato le rivolte». Ma c’è di più, e qui scatta la seconda ossessione del magistrato coraggioso. Se uscissero dal carcere con l’anticipo di pochi mesi persone che comunque dopo poco tempo sarebbero comunque libere, ci sarebbe il pericolo di aver rimesso in libertà persone che avessero commesso gravi reati, persino contro la Pubblica Amministrazione. Immaginatevi che rischi per la società se andasse ai domiciliari qualche consigliere comunale!
C’è un’intera storia, ma soprattutto un’intera (sub)cultura, dietro questo ragionamento. Prima di tutto, della strage del coronavirus che ha già ucciso settemila persone e della vera bomba che esploderebbe se il contagio si espandesse nelle carceri, al pm Di Matteo pare non importare molto. «In galeeeera!» è l’unica regola conosciuta, alla faccia della Costituzione. In secondo luogo, da bravo pubblico accusatore, ha già emesso la sentenza: le rivolte nelle carceri dei giorni scorsi sono state dirette dalle “organizzazione criminali”.
Lui non sa nulla della paura ( è un magistrato coraggioso) che ti prende quando senti nell’aria un nemico insidioso che non puoi combattere, a maggior ragione se sei rinchiuso. Lui non sa nulla dell’importanza dell’affettività, anche come forma di rieducazione e di speranza nel futuro, per rompere la solitudine della cella. E il dolore che ti pervade quando il timore del contagio spezza quel filo sottile che ti lega all’esterno attraverso i colloqui con le persone che ti vogliono bene. Un dolore che nel modo sbagliato di cui poi magari ci si pente si trasforma in rabbia, e allora compi gesti che rompono gli oggetti e magari anche il tuo stesso futuro.
Quindici persone sono morte, dottor Di Matteo, in quelle rivolte. E quelli che comunque hanno partecipato ai disordini saranno esclusi dal provvedimento del ministro Bonafede, così come i condannati per i reati più gravi. Ma a lei questo ancora non basta. No, lei cerca i “mandanti”, cioè i capi della rivolta, che, immaginiamo, dirigevano l’orchestra da una qualche stanza dei bottoni. C’è sempre qualche oscuro mandante che agisce nell’ombra, nella sua cultura. Un po’ come quando si parla di Dell’Utri come “garante” di un patto tra Berlusconi e la mafia. Un po’ come quando si attenta alla giugulare di Calogero Mannino, che poi viene regolarmente assolto.
Perché il nome di Berlusconi, i nomi dei politici ( un po’ di invidia?) sono un’altra delle ossessioni dei magistrati coraggiosi. E non è un caso che, nel denunciare che gli scarcerati, un volta mandati a casa, potrebbero evadere o ripetere i loro reati (cosa che evidentemente non accadrebbe un anno dopo), il pm siciliano nomini anche i condannati per »reati contro la pubblica amministrazione». Un disco rotto.
E, visto che il membro del Csm lamenta anche che, con questo provvedimento si «è scaricata sui magistrati di sorveglianza la responsabilità di scarcerare i detenuti» , sarà bene rammentare al distratto magistrato coraggioso la lettera che nei giorni scorsi hanno inviato al ministro guardasigilli le presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano e Brescia. Cioè delle zone più colpite dall’epidemia determinata da Covid-19. Le dottoresse Di Rosa e Lazzaroni avevano invocato misure ben più forti, per fronteggiare l’emergenza ed evitare altre proteste, forse altre rivolte. Detenzione domiciliare per coloro che «hanno pena anche residua inferiore ai quattro anni».
E poi riduzione di pena di 75 giorni ogni sei mesi scontati in buona condotta e licenza speciale di 75 giorni ai semiliberi. Questo è un approccio di tipo riformatore da parte di magistrati che fanno il loro mestiere di magistrati. Senza la pretesa di essere coraggiosi né eroici. E del resto lo stesso parere espresso ieri dal plenum del Csm, pur timidissimo, pare sollecitare al governo decisioni più veloci e utili, come quella del governo francese sulle pene brevi, per dare almeno un segnale di attenzione alla salute dei detenuti nei giorni del virus e al perenne problema del sovraffollamento delle carceri. Il membro togato Nino Di Matteo ha votato contro. Con coraggio e sprezzo del pericolo.
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