«Fuggono anche i detenuti qualche volta, ma troppo di rado, e io vorrei che le evasioni fossero ben più numerose: me lo augurerei di cuore» (F. Turati, Il cimitero dei vivi, da un discorso alla Camera dei Deputati sulle condizioni del sistema carcerario del 1904). A fronte delle grida di dolore che si levano dalle carceri e dal personale penitenziario, il Governo ha tecnicamente risposto con una presa in giro – un “cinico bluff” come definito, con parole vere e chiare, dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza – che, nella migliore delle ipotesi, consentirà a poche centinaia di detenuti di scontare il residuo di pena all’interno delle proprie abitazioni.

La presa in giro si annida nella parte finale del provvedimento: la concessione della detenzione domiciliare è subordinata (salvo che per i detenuti con un residuo di pena inferiore a sei mesi) alla disponibilità dei braccialetti elettronici. Sì, proprio quegli introvabili braccialetti elettronici la cui cronica e colpevole indisponibilità è la causa di quasi la totalità delle custodie cautelari in carcere: è irridente; è disumano. Pochissimi dunque usciranno dal carcere ed, a turno – come in una sorta di tragica riffa – via via che i braccialetti si liberanno.

Quella moderazione, quell’evitare fughe in avanti, quella sana logica del miglior compromesso possibile a cui ci si è sottoposti per tentare di raggiungere un risultato intermedio in grado di salvare numerose vite umane sembrerebbe essere risultata vana. Il confronto sembra essere impossibile con gli integralisti delle manette, veicolo sicuro per attrarre il consenso. Ma non vogliamo e non possiamo arrenderci. Continuiamo ad invitare ed esortare il Governo e il Parlamento a cambiare rotta e ad assumere provvedimenti che realmente mettano al sicuro la salute delle decine di migliaia di detenuti, guardie penitenziarie ed operatori del carcere in questo momento sottoposti ad inaccettabili rischi.

Aggiungiamo, inoltre – anche attraverso un appello al Presidente della Repubblica perché svolga quel compito di moral suasion che costituisce l’essenza fondamentale del suo ruolo all’interno degli equilibri costituzionali – la necessità di emanare provvedimenti di amnistia ed indulto che possano consentire al nostro paese di rientrare nei confini della civiltà e dell’etica. Mantenere lo status quo significa rappresentarsi ed accettare non già il possibile rischio bensì il più che probabile evento che moltissimi detenuti e guardie penitenziarie possano contrarre il virus ed in alcuni casi morire.

Agire (o non agire) pur sapendo che necessariamente una simile condotta produrrà certi risultati significa assumere su di sé la responsabilità politica e giuridica delle eventuali morti. Si è davvero disponibili a tutto questo pur di restare coerenti alla brutale e demagogica propaganda?  Quattordici detenuti sono già morti nei giorni delle rivolte, “perlopiù” – come improvvidamente riferito in Parlamento dal Ministro di Grazia e Giustizia – per intossicazione da abuso di farmaci e metadone. Evitiamo tra qualche mese di contare decine di decessi tra i detenuti, perlopiù a causa del coronavirus. Nel 2020, cosa direbbe Filippo Turati sul carcere al tempo del coronavirus?

 

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