Proprio un mese fa sono stato invitato a presentare un libro scritto da un detenuto americano che commenta la Regola di San Benedetto, come via per la meditazione e la riconciliazione, nella Abbazia di San Miniato al Monte a Firenze, una chiesa bellissima da cui si guarda stupefatti Firenze. L’incontro si svolgeva nella cripta come fossimo clandestini o resistenti e ho conosciuto Padre Bernardo con cui ho intrecciato un dialogo ricco di suggestioni.
Sembra passato un secolo per la nostra vita e per il carcere.

Viviamo in uno stato di eccezione, in cui le libertà e i diritti costituzionali sono messi da parte in nome del solo diritto sopravvissuto, quello alla vita e alla salute, certo fondamentale. Per il carcere la situazione è precipitata ancora di più, nell’isolamento assoluto e nella tragedia. Padre Bernardo segnalava una importante analogia tra il monastero e il carcere in quanto entrambi i luoghi sono segnati da un perimetro non facilmente valicabile, una clausura scelta o imposta.  Sono paragonabili gli spazi angusti di una cella del monastero con quella del carcere?

La grande differenza è tra il silenzio di un luogo che favorisce la riflessione rispetto al rumore assordante della galera e il fatto che la cella in carcere non è riservata per una persona ma è occupata da varia promiscuità e i servizi igienici non assicurano alcuna decenza. Soprattutto le notti in carcere sono segnate dalle tre T, terapia, taglio e televisione.
Il sangue scorre sulle braccia e sul torace di chi senza voce parla con il proprio corpo, le urla di chi invoca il farmaco che anestetizzi il dolore, la babele di lingue dei programmi televisivi a tutto volume: questo è lo spettacolo che si ripete quotidianamente nell’indifferenza e nella assuefazione.

Questa condizione di una umanità senza speranza fa capire il paradosso delle rivolte che hanno dato l’assalto all’infermeria invece che all’armeria. I vertici del ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria sono riusciti in una impresa incredibile, a farci tornare indietro di quaranta o cinquanta anni fa con i detenuti sui tetti, padroni di una ventina di Istituti e con tredici morti che con grave ritardo hanno avuto un nome, ma ancora nessuna pietà, forse perché considerati “scarti”, non persone. Quasi tutti stranieri, comunque “tossicodipendenti”.

Si è fatto risentire Carlo Giovanardi, autore della nefasta legge a cui diede il nome insieme a Gianfranco Fini che rese più crudele la legge antidroga del 1990 ed enfatizzò l’ideologia del proibizionismo, sostenendo ipocritamente che i tossicodipendenti non devono stare in carcere. Questa litania l’ho sentita fino alla nausea. Ogni anno il Libro Bianco curato dalla Società della Ragione denuncia che il sovraffollamento nelle carceri ha una causa precisa. Sono presenti nelle carceri italiane oltre 61.000 detenuti, di questi circa il 30%, pari a 17.000 persone sono classificati come tossicodipendenti e il 35%, pari a più di 21.000 persone sono ristrette per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 cioè per detenzione o piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vietate.

Altro che provvedimenti “svuotacarcere” come lamentano i fautori del carcere per tutti, anche per gli accusati di fatti di lieve entità, partito a cui è iscritta la ministra dell’Interno Lamorgese; occorre mettere al primo posto dell’agenda politica la riforma della politica sulle droghe scegliendo la strada della decriminalizzazione, della legalizzazione e della riduzione del danno. Le proposte sono depositate da più legislature e sono state elaborate da grandi giuristi fra i quali va ricordato il nome di Alessandro Margara.

Il carcere, dimezzato nelle presenze, diverrebbe più aderente all’articolo 27 della Costituzione e sarebbe riservato ai delitti più gravi contro la persona e ai reati caratteristici del nostro tempo, quelli ambientali, finanziari, informatici.
Papa Francesco qualche giorno fa si è rivolto con umanità ai prigionieri (non ai detenuti) in questo tempo di estrema difficoltà e di abbandono invocando la misericordia che secondo Padre Bernardo «fa sentire ogni recluso non più condannato all’espulsione dalla vita, ma colui che, amato contro ogni logica retributiva, fa viaggiare, volare, sognare».