La situazione emergenziale sanitaria che il nostro Paese si vede costretto ad affrontare in questo periodo storico ha reso più evidenti le gravi difficoltà del sistema penitenziario nazionale. Partiamo da una prima riflessione di carattere generale: la profilassi imposta dalle autorità competenti al fine di evitare la diffusione del contagio mal si concilia con le modalità di esecuzione della pena in regime custodiale così come delineato dalla legge di ordinamento penitenziario del 1975. Il carcere, infatti, nella prospettiva del legislatore illuminato, pur essendo un luogo di reclusione, non si presenta come una monade ma come una finestra sul mondo esterno attraverso la quale si cerca di realizzare quel percorso di rieducazione riconosciuto dall’articolo 27 della Costituzione.

Le misure cautelative che hanno coinvolto tutti i cittadini hanno pertanto investito anche il regime penitenziario ordinario con una serie di misure limitative, fra cui la sospensione dei colloqui dei detenuti con i familiari. In tale contesto, già di per sé difficile da gestire, si inseriscono le carenze organiche del sistema penitenziario, intese sia come carenze di dotazioni che di personale, nonché la piaga del sovraffollamento carcerario. Le rivolte dei detenuti cui abbiamo assistito nei giorni precedenti, infatti, sono solo il riflesso e l’inevitabile conseguenza di un problema endemico all’ordinamento italiano, al quale non si è ancora riusciti a dare definitiva soluzione.

Sono trascorsi ormai dieci anni da quando il nostro Paese, con la sentenza Soulemanovjc, veniva condannato per la prima volta – e per fatti ancor più risalenti nel tempo – perché non aveva rispettato il divieto, sancito a livello sovranazionale, di “trattamenti inumani e degradanti”, per i più era solo una questione di “metri quadri”. La Corte europea dei diritti dell’uomo già in quella occasione (le affermazioni di principio saranno ben più incisive qualche anno più avanti nella decisione del caso Torreggiani c/Italia) affermava che tale violazione non era frutto di una temporanea situazione emergenziale, quanto piuttosto sintomatica di un problema strutturale di cui si chiedeva, al più presto, una risoluzione.

Nonostante le pronunce successive, identiche alla prima quanto al contenuto, l’ordinamento italiano riuscì, quantomeno in via normativa a dare attuazione alle richieste avanzate dai giudici di Strasburgo. In sostanza, solo parzialmente si diede seguito alle varie misure oggetto dei decreti, cosiddetti “svuota-carceri”, che si susseguirono nel corso degli anni: una piena concretizzazione degli stessi, unitamente a una serie di interventi di edilizia penitenziaria avrebbe, quasi certamente, ridotto il numero di coloro che – imputati in custodia cautelare, detenuti o internati – si trovano ristretti negli istituti penitenziari.

Proprio oggi, allora, questa mancanza di attenzione verso il mondo delle carceri si fa più evidente che mai: a fronte di una capienza regolamentare di circa 51.000 posti si registra una popolazione detenuta pari a circa 61.000 unità, in alcuni casi, in cella si sta in 9, anziché in 5, e ciò lascia ben immaginare il tragico risvolto che si avrebbe nel caso in cui, anche solo uno di loro, sviluppasse una malattia contagiosa. Ancora una volta si torna a parlare di “metri quadri”.

Oltre a questo, però, si cela un dato ancor più importante, che certo non è temporaneo come la situazione emergenziale sanitaria che stiamo vivendo: il carcere non può essere trasformato in una polveriera di rabbia perché è luogo destinato al recupero sociale di un soggetto che ha sbagliato. E affinché ciò non avvenga, è necessario ed essenziale che siano garantite condizioni di vita dignitose, idonee alla rieducazione del condannato. Come, allora, si potrebbe agire a tal fine? Se volgiamo lo sguardo alla storia penitenziaria del nostro Paese le soluzioni attuate in passato spaziano da quelle più radicali, consistenti in provvedimenti di clemenza (a seguito dell’indulto del 2006 la popolazione carceraria diminuì da 61.264 unità a 39.005) a quelle di riforma del sistema, come il pacchetto svuotacarceri a seguito del rimprovero dell’Europa.

L’efficacia delle due differenti strategie si rivela nel lungo periodo: gli effetti del provvedimento straordinario si sono esauriti nell’arco di pochi anni, i decreti svuotacarceri, seppur parziali e migliorabili hanno apportato modifiche vantaggiose nell’ordinamento penitenziario soprattutto per quanto concerne l’esecuzione penale esterna. La chiave di volta, dunque, dovrebbe essere rintracciata nella necessità di avviare un percorso organico di riforma: l’unico in grado di conseguire, a trecentosessanta gradi, una “razionalizzazione” del sistema carcerario.

Quanto al piano normativo, ad esempio, si potrebbe prevedere la prosecuzione dell’espiazione della pena in detenzione domiciliare per soggetti con pena residua non superiore a 24 mesi e per detenuti ultrasettantenni, fatti salvi i divieti di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario – introducendo in questo caso una presunzione assoluta e non relativa, qual è oggi, di inadeguatezza dell’istituto penitenziario; si potrebbe poi prevedere un aumento del tetto di pena, residua e non, per la concessione delle misure alternative. Ancora, al fine di deflazionare la popolazione carceraria non definitiva, si potrebbe prevedere un utilizzo della misura della custodia cautelare in carcere entro limiti più stringenti: solo nei casi di effettiva ed estrema pericolosità procedendo, nei casi esorbitanti da questi, con misure quali gli arresti domiciliari o l’obbligo di dimora.

La risposta del legislatore dell’emergenza arrivata solo di recente con il decreto legge n. 18 pare, a una prima lettura, aderire alla seconda strategia quantomeno limitatamente alle modalità di intervento con il quale sono state previste misure di carattere economico per far fronte ai danni conseguenti ai disordini verificatisi negli istituti penitenziari nei giorni scorsi e misure deflattive della popolazione carceraria. Nello specifico, all’articolo 123, ai fini dell’esecuzione della pena presso il domicilio per tutte le pene, anche residue, non superiori a 18 mesi, (misura introdotta nel nostro ordinamento nel 2010 proprio con uno dei primi provvedimenti svuotacarceri) è stata prevista una semplificazione della procedura applicativa, che nella ratio del legislatore dovrebbe contribuire rapidamente a diminuire i numeri della popolazione detenuta.

Tale provvedimento tuttavia, già di per sé privo di concreta vis deflattiva, risulta ulteriormente mitigato dalla previsione di cui al terzo comma che aggiunge, per le pene superiori a sei mesi l’obbligo di sottoporre il condannato a una “procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici”. A ben guardare, dunque, la concreta efficacia del provvedimento è subordinata alla disponibilità, di cui più volte è stata segnalata l’inadeguatezza, degli strumenti di controllo, comunemente noti come braccialetti elettronici. Si poteva fare dunque meglio e si poteva fare sicuramente di più e ciò sia per superare il momento dell’emergenza che per migliorare le condizioni delle carceri.

Un’ultima riflessione di segno positivo: l’esperienza insegna che anche da situazioni di emergenza possono venire fuori buone prassi e forse, anche quella che stiamo vivendo può essere l’occasione giusta per porre rimedio a una situazione da molto tempo trascurata. Nell’ambito dei provvedimenti d’urgenza di questi ultimi giorni va senz’altro segnalata con favore l’implementazione dei sistemi di comunicazione a distanza mediante l’utilizzo per i detenuti del sistema di videochiamata Skype, facoltà già introdotta in via amministrativa con la circolare 30 gennaio 2019 e scarsamente attuata nelle carceri italiane. Facciamo in modo che le buone soluzioni diventino buone prassi.

 

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