Le colonne di fumo che si alzano in contemporanea da San Vittore, Regina Coeli, Rebibbia, Poggioreale e altre decine di carceri, non si vedevano dagli anni 70. Quelli furono gli anni in cui alle rivolte dei detenuti, che soggiacevano a un sistema penitenziario del 1891, si rispose dando vita a un’epocale riforma dell’ordinamento penitenziario nel 1975. A distanza di un decennio con la legge Gozzini si diede seguito a una serie di ulteriori interventi che ponessero il nostro paese in linea con i dettami delle carte internazionali a salvaguardia dei diritti dell’uomo e soprattutto conformi all’articolo 27 della Costituzione, che parla del principio di rieducazione delle pene (al plurale, si badi, non solo la pena della reclusione ma tutte quelle previste dalla legge, dall’esecuzione penale esterna alla detenzione domiciliare). Oggi siamo di fronte alla più clamorosa regressione nell’applicazione della legge e, soprattutto, rimaniamo attoniti davanti alle violenze e ai rischi per la sicurezza pubblica che si stanno generando in queste ore.

Sembra di assistere a un bollettino di guerra: a Foggia interviene l’esercito con i carri armati per far fronte all’evasione di massa di centinaia di detenuti; a Roma gli elicotteri e le forze della Polizia di Stato e i Carabinieri circondano l’istituto simbolo posto al centro della Capitale; a Pavia il carcere è distrutto, i detenuti, dopo aver anche minacciato l’incolumità degli agenti, sono stati trasferiti; a Modena la tragedia, tre detenuti morti in carcere e altri tre deceduti successivamente al loro trasferimento. L’opinione pubblica è rimasta disorientata.

Come è possibile che si sia verificata questa ondata di violenza incontrollata senza che nessuno la prevedesse e poi, ancora peggio, senza che vi fosse una catena di comando che ne contenesse gli effetti? È possibile che una circolare, per quanto improvvisa, abbia potuto scatenare questa reazione? Purtroppo sì. Soprattutto se quella circolare, che blocca i colloqui per un periodo superiore a quello previsto per le stesse zone rosse, non è stata né spiegata né intrapresa in un contesto che prevedesse delle alternative, dai colloqui via Skype al potenziamento dei filtri sanitari. Sì, perché era da settimane che c’erano le avvisaglie di quanto poi sarebbe accaduto: bastava leggere i comunicati delle organizzazioni sindacali della PolPen o parlare con gli operatori penitenziari per sapere che in quegli ambienti non si stava procedendo a una adeguata profilassi, che non venivano garantite aree di sicurezza sanitaria.

Si è “tirato a campare” fino a che la bomba è esplosa, con i soli operatori di polizia penitenziaria lasciati soli ad affrontare l’emergenza. Soli: poiché il capo Dap, il dottor Basentini, si è ben guardato di stare al loro fianco fin dalla prima rivolta, quella di tre giorni fa, totalmente occultata, del carcere di Fuorni a Salerno e neppure si è visto in nessuna delle situazioni critiche. A parlare con i detenuti ci sono andati i direttori, i poliziotti penitenziari e il garante nazionale Mauro Palma. Intanto il mutismo dei responsabili, dal ministro Bonafede al capo Dap, ci ha privato persino di uno di quei comunicati ufficiali che servono per far intendere che almeno si sia consapevoli della situazione.

Oggi è assolutamente indispensabile prendere iniziative che servano ad alleggerire la situazione, rifuggendo il populismo becero e pericoloso di chi soffia ancora sul fuoco e invoca ancora un pugno più duro. L’ordine e la sicurezza vanno certamente riportati negli istituti, ma a farne le spese non possono essere i lavoratori e, certo, non si può derogare al rigoroso rispetto dei diritti fondamentali dei ristretti. Solo che per far fronte al disastro creato, anche figlio di una dissennata politica carceraria che ha fatto lievitare il numero dei detenuti a oltre 60mila, non ci può più essere l’attuale capo del Dipartimento, che per senso di responsabilità dovrebbe rassegnare le dimissioni immediate, ma una nuova e più efficace gestione che sappia come si affronta il delicatissimo tema del carcere. Perché “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le condizioni delle sue carceri” come diceva già Voltaire, ma ciò vale ancora, anche ai tempi del Coronavirus.