Lo strumento delle confische preventive, da qualche anno, viene spesso indicato quale strumento privilegiato dallo Stato per il contrasto alle organizzazioni criminali, soprattutto di tipo mafioso. Sottraendo a tali consorterie le sostanze economiche che le rendono forti ed efficienti sui mercati criminali ma, soprattutto, nel sistema economico lecito, si raggiungerebbe l’obiettivo del loro indebolimento in modo molto più rapido ed efficace di quanto non sia possibile fare con i processi penali, i quali riguardano le condotte dei soggetti imputati, e non la provenienza delle loro ricchezze.

Questo ragionamento, fatto fluttuare nel discorso pubblico senza ulteriori approfondimenti, è indiscutibilmente affascinante e fa presa sull’opinione pubblica per l’immagine semplice che trasmette: ci si figura un membro di una potente organizzazione criminale, spropositatamente ricco, al quale lo Stato improvvisamente sottrae le copiose sostanze illecitamente percepite ottenendo il duplice obiettivo di punirlo per le sue condotte, colpendo il suo portafoglio, e di restituire alla comunità quei beni che il crimine organizzato le ha ingiustamente sottratto.
Per rendersi conto di come le cose non stiano affatto così, ci sono due modi: uno empirico ed uno scientifico, entrambi legati a doppio filo tra loro, al contrario di quanto voglia far credere l’irritante alibi della scissione manichea tra “teoria” e “pratica”, che avvelena da anni ogni discorso in materia giuridica nel nostro Paese.

Il metodo empirico si può ridurre anche alla mera osservazione delle storie delle persone e delle imprese colpite dalla confisca preventiva. Nessuno Tocchi Caino, con il suo Consiglio direttivo del 27 giugno scorso, ha dato voce a queste storie e si è potuto vedere in cosa consista, per davvero, la realtà delle misure patrimoniali preventive. Ciò che emerge è, sostanzialmente, l’assenza di ricostruzioni fattuali concrete a sostegno di misure che inginocchiano persone ed aziende; a volte, persino, queste misure si reggono su delle ipotesi di fatto in aperto contrasto con decisioni giurisdizionali definitive, come nei casi in cui la confisca colpisce persone assolte nei processi penali.

Quelle storie, che farebbero rabbrividire chiunque abbia una vaga percezione di come funzioni una democrazia, rimandano alle numerose osservazioni di tipo scientifico che tolgono alle misure preventive ogni possibilità di essere legittimamente annoverate tra gli strumenti fruibili in uno Stato costituzionale. Le confische preventive, infatti, sono pensate per funzionare esclusivamente in uno Stato autoritario. Basti qui una sola considerazione: esse si reggono strutturalmente sulla violazione del più alto principio posto a fondamento dell’attività giurisdizionale democratica, ossia la presunzione di innocenza.

Ogni confisca, pur colpendo diritti patrimoniali, muove inequivocabilmente da un presupposto chiaro, ossia il sospetto che i beni sottratti dallo Stato siano frutto di attività illecite. Non esistono, infatti, case, denari, attrezzature pericolosi in sé: essi sono pericolosi perché frutto di condotte delittuose. Nel contesto della prevenzione, l’esistenza di queste attività illecite, ovvero reati, è affermata sulla base di elementi ottenuti tramite oscure attività investigative di polizia, ma nessun giudice ne ha mai accertato la sussistenza, né una sentenza penale ha mai potuto concludere che condotte precise potessero essere attribuite a persone precise. Talvolta, persino, la confisca viene disposta nonostante le sentenze assolutorie assunte all’esito di processi penali abbiano smentito la fondatezza delle medesime ipotesi criminose che stanno alla base dell’azione preventiva.

L’intervento sui diritti patrimoniali è qui reso possibile solo da uno spasmo autoritario, che mette da parte con violenza i principi su cui lo Stato fonda la sua stessa legittimazione democratica, ossia la protezione dei diritti fondamentali della persona. Quando lo Stato sottrae sostanze a gli individui senza accertare i fatti illeciti che giustificano quella misura con un processo penale, la legge che trova applicazione è solo la legge del più forte, poiché, l’altra legge, la presunzione d’innocenza, pretende che le conseguenze negative che scaturiscono dalla commissione di reati seguano all’accertamento di quei fatti con sentenza definitiva di condanna emessa all’esito di un processo penale.
Occorre superare questa obiezione alla legittimità delle confische preventive prima di addentrarsi nell’esame di questo strumento ed esaminarlo in tutte le sue sfaccettature.

Non è scientificamente accettabile che di esso si parli senza prima uscire da questo vicolo cieco. È una questione di ordine del discorso, ma anche di rispetto per la vita democratica della Repubblica. E tuttavia, preme qui un’ulteriore considerazione. È lecito dubitare, in radice, non solo della legittimità ma anche della funzionalità e dell’efficienza di interventi punitivi patrimoniali preventivi che non nascano da accertamenti definitivi in merito alla commissione dei reati. Concentrandosi sull’azione preventiva e mettendo in secondo piano la necessità di sentenze definitive, in uno Stato con la nostra Costituzione e aderente al sistema CEDU, come possiamo sperare di raggiungere progressivamente risultati solidi nell’intervento contro le grandi organizzazioni criminali? Interventi instabili, alla lunga, creeranno ostacoli instabili, ossia superabili, per le organizzazioni che si mira a colpire.

Nella prospettiva di lungo periodo a cosa è davvero servito confiscare terre, case, aziende a colui del quale non possiamo ancora dire davvero che abbia commesso alcun reato e che sia affiliato all’organizzazione mafiosa? Le regole costituzionali intendono garantire accertamenti stabili e attendibili, che daranno risultati qualificabili con i medesimi aggettivi, certo più lentamente di quelli subito ottenibili con le confische preventive. Agendo come ora intendiamo agire, si innesterà un pericoloso modo di pensare che inevitabilmente induce a credere che quando occorra davvero ottenere risultati, bisognerà mettere da parte i principi che qualificano il diritto e la giurisdizione penale democratica (presunzione di innocenza, giudice precostituito, diritto penale del fatto, principio della pena rieducativa, contraddittorio e metodo adversarial).

E si finirà così per pensare che le regole e i canoni del diritto e del processo penale democratico siano i maggiori ostacoli all’applicazione del diritto penale attraverso il processo. Ma forse ciò è già successo, e questa perversione fonda l’intervento dello Stato ancor più di quanto facciano i principi della Costituzione repubblicana. E ci sembra, oggi, che a tutto questo non sia ancora lecito rassegnarsi.