Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la terza di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

A distanza di sette anni, non sono riuscito a capire perché lo Stato si sia impegnato così tanto per distruggere una realtà produttiva come quella della mia famiglia. Ci sono voluti due Tribunali, due ricorsi in appello, due perizie e fiumi di denaro per riconoscere quello che era evidente sin dall’inizio, cioè che i Niceta non hanno mai fatto affari con la mafia. Già nel 2010 il Gip aveva archiviato un procedimento nel quale, insieme a mio fratello, venivo sospettato di intestazione fittizia. Già allora un giudice riconobbe che non vi erano neppure gli elementi per andare a giudizio.
Il pieno riconoscimento della nostra estraneità a fatti di mafia non bastava alla Sezione Misure di Prevenzione che, per gli stessi identici fatti, ha sequestrato il nostro patrimonio.

La crescita imprenditoriale dei fratelli Niceta non poteva che spiegarsi con il sostegno della mafia. Del resto, in quel momento, avevamo 15 punti vendita di abbigliamento, di cui uno nel centro commerciale di Castelvetrano, feudo del famigerato Messina Denaro. Se sei siciliano è un indizio, se operi a Castelvetrano è una prova. Questo faceva di noi degli imprenditori collusi con la mafia. La regola – che non ammette eccezioni – è che tutti coloro che operano in Sicilia sono collusi con la mafia. Nel giro di qualche ora ci siamo ritrovati fuori dalla nostra azienda, dalla nostra casa, dalla nostra vita. Nessuno te lo spiega: non c’è un’accusa specifica, sei semplicemente un sospettato, un proposto che, nonostante non abbia commesso alcun reato, viene trattato come il peggiore dei criminali. Non te ne accorgi ma sei già diventato una persona senza diritti, un numero da bruciare per alimentare il fuoco perpetuo della propaganda mafiosa dei sequestri e delle confische. In un processo di prevenzione, la presunzione d’innocenza sparisce. Qui sei colpevole fino a quando non riesci a dimostrare la liceità del tuo patrimonio, anche se questo si è formato 20 o 30 anni prima, anche se a crearlo è stato tuo padre o tuo nonno.

La chiamano inversione dell’onere della prova. Tra un rinvio e l’altro, aspettando la perizia (cioè aspettando Godot) il tuo nome viene dato in pasto all’opinione pubblica e vieni macchiato in maniera indelebile, a prescindere da quale sarà l’esito del processo. Come si dice in Sicilia, “u carvuni s’un tingi mascarìa” (il carbone se non colora sporca). Cominci a fare i conti con la tua nuova vita: non sai come provvedere ai bisogni dei tuoi tre figli minorenni; non sai da dove reperire le risorse per pagare i tuoi avvocati; l’azienda per la quale hai vissuto e per la quale hai sacrificato tanto, alle volte troppo, viene affidata ad un amministratore giudiziario (un commercialista senza arte né parte) che non ha idea di che cosa sta amministrando. Un professionista calato dal cielo, scelto non per le sue competenze specifiche ma per la “fiducia” che riesce a ispirare nel collegio che lo ha nominato. Si circonda presto di una corte di collaboratori, coadiutori, professionisti o semplici impiegati, scelti sempre “a fiducia”, senza una logica di utilità aziendale, i quali mensilmente succhiano migliaia di euro dalle casse della tua azienda.

Al tuo avvocato chiedi di fare valere i tuoi diritti, ricevendo come risposta che non ci si può difendere dal sospetto. A decidere poi sono sempre i giudici, cioè quelli che hanno già sequestrato la tua azienda ritenendoti un soggetto vicino alla mafia. Depositi motivate istanze, manifesti preoccupazione per le sorti della tua azienda e speri di essere ascoltato dai giudici, cioè da quelli che hanno già autorizzato l’amministratore giudiziario a smantellare il tuo patrimonio. Le tue istanze vengono puntualmente rigettate. È lì che capisci di non contare niente. Stai recitando, tuo malgrado, una parte in una grande farsa, il cui esito è già scritto in partenza: distruzione dell’azienda e confisca!

Passano gli anni e le udienze. I punti vendita vengono chiusi uno dopo l’altro, i dipendenti sono licenziati e i fornitori non vengono pagati. Le forze e le speranze ti stanno abbandonando. Nel frattempo, uno spiraglio di luce: il Tribunale di Trapani ti dà parzialmente ragione e ritorni a sperare. In appello ottieni pure il pieno riconoscimento delle tue ragioni: arriva la restituzione dell’azienda o, meglio, di ciò che ne rimane. Peccato, però, che strada facendo, quell’azienda è stata sequestrata dal Tribunale di Palermo. Ricomincia la giostra infernale. Passa ancora un anno, scoppia lo scandalo Saguto: il giudice che, con un tratto di penna, ha cancellato per sempre la nostra vita è adesso accusato di oltre 70 capi d’imputazione, insieme all’amministratore giudiziario che ha usato le nostre aziende come un bancomat e come ufficio di collocamento. È passato un altro anno. Finalmente, il collegio giudicante, in altra composizione fisica, ci dà ragione. Ma non è finita. La Procura fa ricorso e siamo costretti a ritornare in aula: altro girone dell’inferno.

In tutti questi anni ho provato a dare un senso alla mia vita. Ho cercato di trasformare un dramma personale in un’occasione di crescita per la collettività, affinché quanto ha subito la mia famiglia non capiti ad altri. Ho trovato tante porte chiuse e ho ricevuto tante pacche sulle spalle. Gli unici che si sono concretamente impegnati in una sacrosanta battaglia di civiltà, gli unici che mi hanno ascoltato mentre tutti gli altri prendevano le distanze sono stati il Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino.

Sono migliaia le persone che hanno vissuto la mia stessa tragedia. Ho conosciuto storie più incredibili della mia e ho toccato con mano la paura di chi non le vuole raccontare, temendo ritorsioni di carattere giudiziario. L’antimafia è una questione di fede. Persino quando commette degli errori madornali, l’antimafia non può essere messa in discussione. Tutte le decisioni a noi favorevoli affermano che l’archiviazione del 2010 aveva già esaurito tutta la materia del contendere. Allora mi chiedo che senso aveva fare ben due processi di prevenzione. Poi un giorno ti svegli e leggi sul giornale di una parcella da 120 milioni di euro presentata da quattro amministratori giudiziari per un anno di lavoro e capisci.