La misura di prevenzione patrimoniale della confisca è un efficace strumento di aggressione alla ricchezza illecita accumulata dalle organizzazioni criminali, ma ha anche un prezzo elevato. Fa molte vittime innocenti. Nella sua massima espressione, la confisca di prevenzione riguarda i presunti “appartenenti alle associazioni mafiose” e non già i membri di esse che, se scoperti, sono fulminati dal 416 bis e, ove condannati, subiscono la confisca – cosiddetta allargata – dei beni di cui non è dimostrata la genesi lecita.  Per gli “appartenenti” – mai imputati o addirittura assolti del reato di associazione di stampo mafioso – è prevista una forma di confisca ben più insidiosa, che prescinde dalla condanna e richiede soltanto l’accertamento dell’enigmatica condizione di “appartenenza” all’associazione mafiosa. Sono i nuovi dannati, difficilmente collocabili in alcuno dei gironi dell’Inferno di Dante.

Il principio di legalità “nessuna pena senza legge” non vale per il “diritto di prevenzione”, in ragione della ritenuta estraneità di esso alla cosiddetta materia penale. Il testo di legge non consente di fissare con sufficiente chiarezza i connotati fattuali e giuridici dell’appartenenza, diversa dalla partecipazione. In siffatto quadro di incertezza il giudice della prevenzione, nell’indagare gli elementi di pericolosità, fa ricorso a dati empirici piuttosto che a dati oggettivi. Spesso è sufficiente rilevare un mero rapporto di contiguità del proposto (anche culturale) con un’associazione mafiosa o una episodica interessenza affaristica, per ritenere raggiunta la soglia della “appartenenza”, nella supposizione di una indefinita traslazione del “potere” mafioso all’impresa con ipotetico rafforzamento di essa nel mercato.

Addirittura, il giudice non deve nemmeno accertare l’appartenenza alla criminalità mafiosa del proposto, piuttosto deve limitarsi all’apprezzamento di semplici indizi di appartenenza, indizi che non sono quelli di cui all’art. 192 del codice di procedura penale – gravi, precisi e concordanti – ma semplici sospetti derivanti dallo stile di vita, dalle frequentazioni personali, dall’attività svolta dal proposto. Il soggettivismo del giudice non incontra nemmeno il vincolo della logica del suo provvedimento, tant’è che in sede di ricorso per cassazione non è ammesso alcun sindacato sulla motivazione. Il procedimento di prevenzione, a differenza del processo penale, non deve accertare l’esistenza o meno di un fatto ma semplicemente se un soggetto possa ritenersi pericoloso sulla base del suo stile di vita: pur dovendo presupporre determinati reati, che si assumono essere stati commessi dal proposto, il giudice è esentato dall’obbligo della prova. Si tratta di un vero e proprio “mostro giuridico” che si nutre del pregiudizio ambientale, di dati empirici affermatisi su un malinteso senso di lotta alla mafia. In un caso all’esame del Tribunale di Trapani si affermava la probabilità della contiguità mafiosa dell’imprenditore che aveva costruito un hotel in Castelvetrano, territorio controllato dal noto latitante Messina Denaro Matteo che difficilmente avrebbe consentito questa costruzione senza un suo interesse. Una follia giuridica, ma tant’è.

Fino ad oggi, lo Stato ha vinto sempre, ha vinto anche quando ha perso. Si gioca, in effetti, una “partita truccata” perché, anche quando l’azione di prevenzione è stata respinta, il proposto si è visto restituire le proprie aziende ormai compromesse da scelte imprenditoriali degli amministratori giudiziari – quando non predatorie – quasi mai adeguate ai particolari business amministrati. Risarcimento? Nemmeno a parlarne. Il codice antimafia non prevede alcuna forma di riparazione per i danni provocati dall’errore giudiziario. Fa parte del gioco, in guerra muoiono i soldati e gli innocenti, e la lotta alla mafia è una guerra. Questa è la “terra” che non appartiene al Diritto, è la terra di nessuno, la nuova frontiera del diritto penale. Il diritto di prevenzione, fondato non già sulla responsabilità personale per determinati reati ma sulle categorie criminologiche di pericolosità previste dall’articolo 4 del codice antimafia, ha generato ormai un vero e proprio sistema alternativo a quello disegnato dal codice penale e processuale.

Soltanto recentemente, con la sentenza numero 24 del 2019 e limitatamente all’articolo 1 del codice antimafia (pericolosità cosiddetta generica), la Corte Costituzionale ha preso atto della natura afflittiva delle conseguenze personali e patrimoniali derivanti dall’applicazione delle misure di prevenzione, affermando timidamente il vincolo del diritto di prevenzione al principio di legalità. Intanto il danno è fatto. Procedura snella, poche garanzie per il proposto, risultati certi e immediati, nessun risarcimento dell’errore. Un sistema degno della peggiore inquisizione di antica memoria, poco importa se ha fatto una “strage di diritti”. Benvenuti nel nuovo sistema penale italiano del presunto colpevole.