Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, la settima di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

Paura, vergogna e altre pene accessorie che si aggiungono a quelle dirette inflitte dal regime di prevenzione antimafia portano molti imprenditori a vivere nel silenzio e nella rassegnazione l’ingiustizia che gli ha distrutto la vita e la reputazione sociale. Userò, quindi, un nome di fantasia per raccontare fatti realmente accaduti. Siamo negli anni Sessanta, in pieno boom economico. Antonio, dopo 25 anni di lavoro come operaio, decide di mettersi in proprio creando una piccola impresa edile. L’esperienza ce l’ha, il mercato è pieno di opportunità e le banche non si fanno tanti problemi per un prestito. Antonio comincia a crescere: costruisce una piccola casa, poi una villetta, poi un palazzo e così via.

Arrivano gli anni Ottanta. Antonio, dopo tanta gavetta, è un imprenditore affermato. Sono gli anni delle stragi di mafia. Non passa un giorno senza un morto ammazzato. I mafiosi si scannano tra di loro per il controllo del territorio. Antonio, come tutti gli imprenditori a Palermo, non può sfuggire al pizzo. Appena piazza un cantiere, viene assalito da 10 cani con richieste di vario genere: soldi, forniture, assunzioni. È il periodo storico in cui, se un imprenditore di Partinico vuole costruire una bettola in Corso Calatafimi, deve prima ottenere il “permesso” della famiglia mafiosa di Corso Calatafimi per il tramite della famiglia mafiosa di Partinico. “Permesso” significa pagare il pizzo ai mafiosi del posto. È questa la trafila da seguire per aprire una pasticceria, un bar, un’edicola o qualsiasi altra attività. Nella logica di Cosa Nostra, i mafiosi sono i “padroni” del territorio e tutti quelli che vi vogliono operare devono ottenere il loro benestare. Si entra in casa di altri solo con il permesso del proprietario.

Antonio prova a dire di no e allora arrivano le prime intimidazioni, i primi avvertimenti, le prime bombe nei cantieri, le prime betoniere incendiate, i primi attentati. Sono gli anni in cui lo Stato non è capace di proteggere neppure i suoi uomini migliori i quali vengono crivellati di colpi o fatti esplodere. Antonio si guarda intorno e vede che pagano tutti: dal grande costruttore del nord fino all’ultimo venditore di panelle. Le forze dell’ordine lo sanno. La politica lo sa. Lo sanno tutti. Antonio ha moglie, bambini e la responsabilità di portare avanti un’impresa con decine di operai e milioni di debiti da onorare. Quella è gente che non scherza; sono assassini spietati che non si fanno scrupoli a uccidere magistrati, carabinieri, prefetti e a squagliare nell’acido bambini. Così, dopo l’ennesima denuncia di furti, danneggiamenti e attentati, decide di pagare.

Siamo arrivati agli Novanta. Sono stati da poco trucidati Falcone e Borsellino. Il loro sterminio ha suscitato una grande indignazione nella società. Lo Stato italiano deve dare al mondo un segnale di reazione per riaffermare la propria supremazia. Il segnale passa attraverso arresti di massa e sequestri a tappeto. L’obiettivo è uno solo: sconfiggere con ogni mezzo il cancro mafioso, anche al costo di sospendere, come si fa in tempo di guerra, le garanzie costituzionali dei cittadini. Ogni guerra comporta il sacrificio di vittime innocenti. Così, in questo contesto, Antonio viene arrestato con l’accusa di aver fatto affari con la mafia. Tutto il suo patrimonio viene sequestrato.

Quel “permesso”, considerato estorsione dal codice penale, viene interpretato come una forma di “agevolazione” da parte della mafia. Il ragionamento perverso è pressappoco questo: se Antonio non avesse pagato il pizzo, non avrebbe ottenuto il permesso; senza il permesso non avrebbe potuto costruire né vendere. La morale della favola è che Antonio è stato favorito dalla mafia, e versando la tangente, ha rafforzato la mafia stessa. Il pagamento del pizzo, d’altra parte, non era affatto ineludibile, perché nessuno obbligava Antonio a non cambiare mestiere oppure a non lasciare Palermo e la Sicilia. Contro di lui le dichiarazioni di alcuni pentiti che nel frattempo si sono, per l’appunto, pentiti. Raccontano fatti risalenti anche a 15 anni prima. Comincia il processo.

Antonio si difende, porta documenti a sua discolpa e riesce a smontare, punto per punto, tutte le accuse. 10 anni più tardi, dopo qualche anno di carcere e di isolamento, dopo perizie, controperizie, annullamenti, rinvii e poi ancora rinvii, arriva l’assoluzione: il suo patrimonio è frutto del suo lavoro e non dei favori della mafia che anzi lo ha vessato.
Nel frattempo, i figli di Antonio sono cresciuti. Dopo avere studiato, entrano nel mondo del lavoro e avviano autonomamente altre imprese, nella convinzione di essere persone libere e di avere un padre definitivamente riconosciuto innocente dallo Stato italiano.

Passano gli anni, Antonio è un vecchio con tanti nipoti, anch’essi impegnati nelle imprese dei figli. Antonio muore, logorato da una vita di duro lavoro e segnato nel profondo dell’anima dal periodo dell’ingiusta detenzione subita.
Qualche anno dopo il decesso, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sequestra tutto il patrimonio dei figli e dei nipoti perché ritenuto riconducibile al nonno e alle sue “attività illecite”. Non conta la precedente assoluzione e non conta neppure che il capostipite sia passato a miglior vita. Si fa il “processo al morto” per confiscare i beni dei vivi. Non interessano i mafiosi. Interessano i beni.

I figli e i nipoti devono ora dimostrare come il nonno sessant’anni prima ha fondato la sua prima azienda. Viene chiesto loro di produrre documentazione risalente a mezzo secolo prima (documentazione non più esistente). Chiedono alle banche gli estratti conti del 1970 ma non li ottengono. Cercano le fatture del 1963 ma non le trovano. Devono spiegare quali erano i consumi familiari del nonno, cosa mangiava a cena, che vestiti indossava, dove e se andava in vacanza, quanto spendeva. Ma non lo possono sapere perché Antonio e sua moglie sono morti.
Gli viene chiesto di smentire il racconto di persone che riferiscono di essersi incontrate, non si sa bene quando e perché, con il nonno negli anni Ottanta. Cioè quando i nipoti non erano nati e i figli erano appena adolescenti. In genere, più passa il tempo più sbiadisce il ricordo. Non così per i pentiti che hanno il dono il recuperare dettagli con trascorrere degli anni.

Il processo finisce con la confisca di tutto. Non c’è la prova che i beni sono il frutto di un qualche reato (del resto Antonio era stato assolto). Tutto si basa su una presunzione: siccome gli eredi non sono riusciti a ricostruire l’evoluzione del patrimonio, i beni sono del nonno “mafioso” (anche se non è mai stato condannato). Forse Antonio aveva fatto un poco di evasione fiscale, quella tipica a cui i costruttori in quegli anni erano costretti a ricorrere non tanto per eludere il fisco ma per avere denaro contante da versare a titolo di estorsione alla mafia. Nulla comunque a che vedere con riciclaggio, reinvestimento di capitali illeciti o altri reati. Ma tutto questo non conta.