Pubblichiamo, in collaborazione con Nessuno tocchi Caino, l’ottava di un ciclo di storie sulle vittime delle misure interdittive e di prevenzione antimafia.

Ho passato dieci anni di inferno e non è ancora finita. Dieci anni in cui sono stato costretto a lavorare per pagare avvocati e consulenti in un processo folle che non doveva mai iniziare. Sono stato sequestrato, cioè punito e umiliato senza un motivo. Il sequestro è una mannaia che può cadere in qualsiasi momento sulla testa di chiunque. Vieni letteralmente decapitato senza avere la possibilità di difenderti.
Si potrebbe dire che mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel posto sbagliato perché a Palermo, insieme ad un’altra persona (rimasta estranea al procedimento), avevo appena costituito una società attiva nel settore degli asfalti. Al momento sbagliato perché lo avevo fatto nel periodo storico in cui la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo era governata dalla dottoressa Saguto.
I pretesti che portarono al sequestro della mia quota erano essenzialmente due: avevo lavorato alle dipendenze di Bordonaro, destinatario della misura di prevenzione; una presunta sproporzione tra i miei redditi e il mio investimento di appena 12 mila euro (l’equivalente di un’utilitaria). Tanto è bastato perché venissi investito da uno tsunami che mi ha tolto il respiro, ma non la forza di reagire.

In questo processo, avviato formalmente contro il “proposto”, ossia Bordonaro, io sono stato catapultato nella veste di “interveniente”. L’interveniente non è un soggetto considerato pericoloso. È semplicemente qualcuno i cui beni vengono presuntivamente ritenuti nella disponibilità di altri soggetti, considerati – sempre presuntivamente – non mafiosi ma “vicini ad ambienti mafiosi”. È un processo al contrario in cui per i giudici i tuoi beni appartengono agli altri e tu devi dimostrare che sono tuoi. Iniziava così un vero e proprio calvario e si apriva davanti a me uno scenario sconvolgente in cui ho visto cose che fino a quel momento non credevo possibili. Ho visto periti incompetenti giocare con la vita delle persone tirando fuori a casaccio dei numeri con la stessa disinvoltura con cui si pescano i numeri a tombola.

Ho visto amministratori giudiziari senza alcuna esperienza atteggiarsi a padroni delle cose degli altri, con un’arroganza propria di chi sa che non deve rendere conto a nessuno. Eppure dovrebbero mantenere i livelli occupazionali, garantire la continuità aziendale e conservare il patrimonio; eppure dicono di essere mossi da uno spirito di servizio per la collettività e non dal proprio tornaconto personale.
Ho visto travasi di costi, personale e risorse da un’azienda all’altra, complesse partite di giro, vietati per qualunque imprenditore ma consentite agli amministratori giudiziari che giustificano tutto con la bella espressione di “economie di scala”, che altro non è che un modo per fare fallire alcune aziende a favore di altre.

Per dimostrare che non c’era alcuna sperequazione, ho dovuto lottare per ben 6 anni contro un perito nominato dal Tribunale. Per raccontare l’arcano delle perizie, ci vorrebbe un intero capitolo. Sono state usate contro di me delle tabelle secondo le quali un dipendente, per sopravvivere, ha bisogno di 4 mila euro al mese. Se fossero adottati questi parametri, tutti i lavoratori subordinati risulterebbero sperequati! Quella perizia è stata rifatta cinque volte. Era come lottare contro un mulino a vento. I miei consulenti inviavano PEC e il perito non rispondeva. Mi venivano attribuiti costi che io non avevo mai sostenuto. Ho fatto “il giro delle sette chiese” per reperire la documentazione a mia discolpa: Banca d’Italia, INPS, ISTAT, per citare solo alcuni degli enti a cui mi sono dovuto rivolgere. Ancora non mi è chiaro come vengono fatti questi calcoli. I periti dovrebbero accertare le spese realmente sostenute e, invece, fanno valutazioni ipotetiche sulla base di indici presuntivi. Si attribuiscono all’accusato dei costi che non ha mai sostenuto. Viaggi che non hai mai fatto, costi per l’acquisto delle sigarette anche se non fumi, abiti che non hai mai comprato, canoni di locazione nonostante hai casa di proprietà. Partendo da questa presunta sproporzione, attraverso una seconda presunzione, si arriva alla conclusione che il tuo patrimonio è illecito e te lo confiscano. E tu non puoi fare niente.

Non sapevo a chi rivolgermi per fare valere le mie ragioni. Scrivevo al giudice che aveva già sequestrato la mia azienda ritenendomi prestanome del proposto. Mi lamentavo del perito davanti allo stesso giudice che lo aveva nominato. Uno stillicidio. Fortunatamente, a seguito dello scandalo Saguto, sono arrivati altri giudici che, quasi dieci anni dopo il sequestro, hanno riconosciuto che un semplice rapporto di lavoro non è sufficiente per una misura di prevenzione. Ovviamente non c’era neppure la sperequazione. Rimane tanta amarezza e delusione. Un battito di ciglio per sequestrare una vita, un decennio per dissequestrare il nulla. Già, perché, come tutte le aziende in amministrazione giudiziaria, anche la mia è stata messa in liquidazione.

La mia società era stata affidata all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, anche lui sotto processo a Caltanissetta insieme alla Saguto. Quest’ultimo, nel pieno “rispetto della legalità”, mi ha fatto lavorare in nero per tre mesi senza neanche pagarmi. Solo a seguito di reiterate istanze dei miei avvocati, sono stato regolarizzato. In pratica, ero io a gestire l’azienda ma senza i poteri di firma. Dovevo chiedere i vari permessi e rendicontare quello che facevo a persone che non avevano alcuna idea di che cosa stessimo parlando. Fino a che c’ero io la società è andata avanti, producendo persino utili. Circa tre anni fa è stato nominato un altro amministratore giudiziario con esperienza nel settore fallimentare. Infatti, la prima cosa che ha fatto è stata chiudere l’azienda. Nonostante il dissequestro, non ho ancora avuto gran parte delle carte in mano e non so il motivo per cui è stata presa una decisione per me inaccettabile.

Non mi do pace perché il sequestro non doveva essere fatto. Oggi, dopo tante sofferenze, non so nei confronti di chi mi devo rivalere per i danni subiti. I responsabili della mia tragedia sono legalmente protetti. L’amministratore unico è stato nominato dall’amministratore giudiziario. Quest’ultimo ha agito con l’avallo del giudice. I giudici in Italia non pagano mai per i propri errori. Non è facile nemmeno trovare un avvocato che riesca a fare valere le tue ragioni con un’eventuale azione di responsabilità civile. La mia esperienza dimostra che l’unico modo per evitare la distruzione delle aziende e la vita delle persone che vi lavorano è attuare la proposta di legge fatta dal Partito Radicale, ossia affiancare e non sostituire l’imprenditore per tutta la durata degli accertamenti. Questo mi avrebbe permesso di ritornare a gestire una società che con me aveva continuato a crescere anche durante l’amministrazione giudiziaria.