Il giornalista che fa il suo servizio davanti al portone della famiglia “mafiosa”, in collegamento con il conduttore che lo istiga a farci vedere le automobili di lusso, le piscine, le ricchezze illecite del “clan”, a me non sembra affatto diverso rispetto al parlamentare che si attacca al citofono del tunisino per domandargli se spaccia. Anzi è peggio. Perché almeno per ora la nostra Costituzione dice che la responsabilità penale è personale, e in uno Stato di diritto quel principio è contraddetto ogni qual volta un gruppo di persone, una famiglia, un clan sono indiscriminatamente esposti a quelle attenzioni. Chi ha dato ai giornalisti il diritto di andare con microfoni e telecamere sotto casa della gente a fare simili “inchieste”? Si piantano davanti ai cancelli e inquadrano le finestre: «Guardate, lì vive Tizio: il fratello è in prigione per mafia!»; «Ecco, vedete? Lì pare che i rubinetti siano tutti d’oro!».

Se poi uno mette il naso fuori, allora il cronista s’infoia: «Eccolo, eccolo!», e via col giornalismo antimafia: «Senta, qui si dice che controllate appalti e prostituzione: lei che ne pensa?». E avanti di questo passo, con il video in digressione verso la donna intervistata sui carichi pendenti del marito: «Quanto gli hanno dato, signora? Ma che era? Droga? Usura? E i bambini lo sanno?».
Questa schifezza la fanno e ce la propinano pressoché quotidianamente, e ne menano pure vanto nella retorica dell’“impegno”, del giornalismo tosto, “sulla strada”, naturalmente in favore del pubblico che “ha il diritto di sapere”: e che vuoi farci se, venendo così a sapere, la brava gente reclama il giusto e cioè ruspa e galera. Si noti poi come questo bel giornalismo si incattivisca in modo particolare nel caso di alcuni. Io tanti reportage, maratone, speciali, presunti documentari, quanti ne hanno dedicati ai Casamonica o agli Spada non ne ho mai visti. E guarda un po’ sono zingari. C’è da giurare che il giornalista democratico respingerebbe con indignazione l’addebito, ma è lo stesso che appunto non si accorge della pericolosa inciviltà del suo lavoro, di come esso violenti una regola elementare della convivenza democratica sostituendola con un canone letteralmente tribale.

Non se ne accorge e anzi rivendica quel suo modo di fare giornalismo, che è pura e semplice attività di molestia ai danni di chi ha la colpa di appartenere a una famiglia piuttosto che a un’altra. E figurarsi dunque se è sfiorato anche solo dal sospetto che tra i motivi che inducono tanta concentrazione informativa (chiamiamola così) possa esserci anche questo, e cioè che si tratta di zingari. Pure, sotto casa degli altri non ci vanno, o non con tanta insistenza. E vorrà dire qualcosa. Piuttosto che gli illeciti commessi da alcuni di loro, a spiegare l’attenzione pubblica e la demagogia anticriminalista verso loro tutti è il fatto che sono zingari: una specie di premessa incriminatoria, per quanto non dichiarabile. E non serve dargli di zingaracci, per rendersi responsabili di questo razzismo inconfessato e, forse anche più temibilmente, inconsapevole. Basta la gogna travestita da servizio pubblico. Che poi sia nella versione progressista del giornalismo antimafia o in quella plebea della tivù “che sta tra la gente” importa molto poco: la matrice, ripugnante, è la stessa ed è doppiamente insultante. Innanzitutto perché tira a una giustizia compartimentata, con interi gruppi di persone messi alla berlina. E poi perché la compartimentazione è su base razziale.