Tutto è più chiaro dal confine. Punto di contatto tra Occidente e Oriente, tra cattolici e ortodossi, pilastro della strategia atlantica di contenimento alla Russia, paese agricolo ma avviato all’industrializzazione grazie a idrocarburi e nucleare (e carbone), con una non ininfluente minoranza etnica ungherese, la Romania è andata al voto e il responso delle urne invita a riflettere.

Nell’anno che segna il trentacinquesimo anniversario dalla Rivoluzione e dalla caduta del regime comunista, gli elettori romeni hanno premiato il candidato “anti-sistema” Călin Georgescu, vero underdog, per usare un’espressione in voga, che andrà al ballottaggio con la candidata definita europeista Elena Lasconi; terzo l’attuale premier. Ieri la Corte Costituzionale ha convalidato i risultati. Quanto al parlamento, le elezioni legislative hanno visto arretrare le forze politiche tradizionali, quelle che hanno dominato la politica romena degli ultimi trent’anni. Sebbene i socialdemocratici (23%) abbiano contenuto le perdite, le forze dell’estrema destra hanno raggiunto oltre il 30% e influenzeranno decisamente l’azione del nuovo parlamento, anche solo impedendo la formazione di una coalizione.

Nato nel 1962 (sono gli anni tra Gheorghiu-Dej e Ceaușescu), agronomo, mai iscritto al Partito Comunista, Georgescu dagli anni ’90 lavora nelle istituzioni romene, mostrando sempre grande attenzione all’ambiente e allo sviluppo sostenibile, vanta inoltre un cursus honorum di rilievo anche negli organi internazionali e perfino nel Club di Roma; noto e controverso per le posizioni critiche su Nato e Unione Europea come per gli elogi ad Antonescu e Codreanu.

Data la varietà della Romania, è interessante la composizione del voto: Lasconi ha avuto successo nei centri più grandi (Bucarest, Timisoara, Cluj), mentre Georgescu – ignorato dai media tradizionali ma forte sui nuovi media – ha avuto la meglio nei distretti rurali come Arad ma anche a Costanza, fondamentale porto (nel 2023 ha raggiunto il record di 92,5 milioni di merci) ma anche epicentro dell’infrastruttura di difesa della NATO.

Sicuramente, ci sono state tante storture nel processo di uscita dal blocco sovietico. Adesione alla UE e ingresso nella NATO erano gli obiettivi della classe politica post-comunista, ma la popolazione ha mostrato di essere scarsamente coinvolta. Certo, dagli anni ’90 il Pil pro capite è cresciuto, ma un misuratore non esaurisce le complessità dei sistemi sociali. Le decisioni della Ue che colpiscono la carne viva del popolo romeno, dal green deal ai motori tradizionali – anche per la sua geografia non ha sistema ferroviario affidabile – fino al grano ucraino che ha devastato la produzione nazionale tanto da scatenare le proteste, hanno fatto il resto.

Al netto delle dichiarazioni e in attesa del ballottaggio, è molto difficile che la Romania possa venir meno all’impegno nella NATO, di cui è attualmente uno dei bastioni difensivi, insieme a Polonia e Baltici. Ma se la frontiera vacilla, le scosse possono arrivare anche altrove.

 

Lorenzo Somigli

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