La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre del 1989, segna la data che conclude il 1917, una data che per tanti aspetti aveva deciso la storia del Novecento. Era la fine sfilacciata e opaca di un grande racconto sul destino dell’Umanità e sul futuro della Storia. Ciò che rimaneva di essa cadeva sotto le macerie. Martelli picconavano pietre e mattoni a opera di chi aveva vissuto il Muro come una barriera invalicabile sorvegliata da miliziani e da lupi, proprio lupi, allenati in Cecoslovacchia a questo scopo. Finiva il 1917 senza lasciare un’eredità ideale. Eppure per tanti anni del secolo la Rivoluzione aveva voluto costituire una data senza ritorno, dopo la quale il mondo della storia non sarebbe mai stato come prima. Certo, questo mito si era andato sfiancando e riducendo lungo gli anni del dopoguerra e della espansione geopolitica dell’Urss, ma la data era sempre lì come convitato di pietra, di volta in volta tornando in forme diverse, con influenze su eventi anche lontani tra loro, con improvvisi ritorni di “marxismi” che in un modo o nell’altro, anche polemico, a quella data si rifacevano.

2. Ma che può significare che nel 1989 finisce il 1917? Significa una cosa precisa, che non c’è una sua eredità. Una vicenda finisce, e basta. E se davvero le cose stanno così, come io penso, cade la tesi principale che lungo diversi tornanti del Novecento aveva tenuto campo tra storici, filosofi e dirigenti bolscevichi e non solo: le due Rivoluzioni, il 1789 e il 1917, l’una capace di realizzare le anticipazioni dell’altra. Lenin reincarnazione di Robespierre. La Russia degli anni Venti simile alla Francia del 1793. Si rinnovava dopo più d’un secolo il mistero dell’universalità del 1789. Quanto si è giocato intellettualmente e politicamente su questo rapporto! Il grande Walter Benjamin scrisse che la Rivoluzione guidata dal materialismo storico significa che gli ultimi, gli esclusi dalla storia ne invadono finalmente il campo e se ne fanno padroni. Quale mito più grande di questo? Ma quale mito più smentito di questo? Si spezzò in radice allora il nesso tra le due Rivoluzioni, il 1789 e il 1917, l’universalismo democratico e i diritti dell’uomo affermati nella prima furono gettati nel fango affinché la borghesia sconfitta non venisse più a intralciare le conquiste del popolo. La rivoluzione francese ha illuminato il mondo per secoli, la rivoluzione bolscevica è finita nel terrore staliniano e, dopo la sua fine e l’autocritica, nella repressione organizzata in Europa dopo il 1945. Che ci siano stati effetti indiretti di un così grande evento è quasi ovvio, ma essi non toccano la mia tesi principale.
E Marx? Per lui andrà proposto un discorso a parte, la drammatizzazione del rapporto tra filosofia e politica nel Novecento porta anche il suo nome, ma le grandi idee e i grandi pensatori non restano seppelliti sotto le macerie di una pur grande vicenda. Gramsci parlò, per il 1917, di una rivoluzione contro “Il Capitale”.

3. Ma c’è qualcosa ancora di più da dire: con il 1989 ha dichiarato fallimento l’ultima Scienza della Storia, tutto in maiuscolo. È finita la previsione morfologica sul destino dell’umanità. Viene la tentazione di accodarsi a quella divertente e anche un po’ angosciante rappresentazione di Robert Musil che, nel cuore del Novecento, vedeva la Storia come uno sbandamento che si muove “di palo in frasca”, senza sapere dove va. Ma non si deve cedere a questa tentazione. La Storia è pur sempre il terreno su cui misurare la nostra umanità, anche se le previsioni irrigidite sono cadute nel nulla, anche se nel nulla è andato il senso di un progresso irreversibile, mentre bene e male, luce e ombra continuano a mescolarsi nella storia umana, ma proprio per questo bisogna continuare a impegnarsi in essa. Non c’è altro luogo dove farlo.

4. E allora il tema che ci viene incontro spontaneamente, senza bisogno di forzature, è il seguente: quali le conseguenze del 1989? Ne ho sottolineato una, la prima più evidente: la fine del comunismo reale. E dopo? Siccome esso si era costituito come un gigantesco sistema di potere, con effetti massicci sulla struttura del mondo, la sua caduta ha dissolto una struttura fondamentale della storia. Si è aperto un gran vuoto. È fin troppo ovvio dire che allora è iniziata quella che chiamiamo globalizzazione. Ma tutt’altro da quella prevista da qualcuno che annunciava la vittoria dei buoni contro i cattivi, l’espansione della democrazia in tutto il mondo. Il dissolvimento improvviso e per molti imprevisti di una struttura comunque solida ha liberato energie le più diverse, che si sono andate sviluppando per loro conto, mentre in superficie, e non solo, tutto tendeva a diventare interdipendente e connesso. Giacché intorno a quella data fatale stava accadendo qualcosa di radicalmente nuovo e irreversibile nelle forme della comunicazione tra umani, ed è aggiungere di che si parla. Tutto dunque spingeva verso il globalismo, e qualcuno pensò, va ancora ricordato, verso libero mercato e democrazia diffusa, con connessa fine della storia. Ma il mondo è complicato, assai più di quanto le fantasie degli analisti non riescano a pensare, e di solito esso fa quello che vuole, si mostra ironicamente o drammaticamente disinteressato a quello che noi pensiamo di lui. Che ha fatto il mondo? Tante cose. Si è reso interdipendente nella comunicazione internettiana, sviluppata poi nella digitalizzazione, nel mercato mondiale, nel commercio ugualmente mondiale, nella finanza anch’essa più che mai mondiale, nella produzione industriale delocalizzata, ha mutato in radice la forma del lavoro, ma a un tempo si è diviso al massimo secondo linee diverse, culturali, politiche, nazionali, etniche, di frontiera, fondamentalistico-religiose, minacciosamente militari e nucleari: insomma, il mondo ha costruito la globalizzazione e la sua controfaccia, l’unità e la scissione. Le due cose sono connesse, più tutto si globalizza più tendono a rinascere le piccole patrie e i grandi agglomerati populisti e autoritari, e anche molte altre cose, prima appena indicate. Insomma, più la globalizzazione e la connessa virtualità tendono a diventare invadenti, più avviene che la
materialità delle cose, per usare una espressione ampia, fa resistenza e cerca un proprio linguaggio per esprimersi. E nascono molte lingue, assai più numerose di quelle che precedevano la data fatale: la lingua delle etnie, con connesse xenofobie, di pretese razze, di una civiltà contro l’altra, dei nazionalismi, dei sovranismi, dei populismi, la lingua che irride le mediazioni e le classi dirigenti, capi e popolo gli uni conficcati nell’altro, senza mediazioni. E più il globalismo avanza in tante forme, più avviene che il mondo si divide appropriandosi delle linee più diverse, delle riserve più vecchie, dei rifugi più improvvisati. Più cresce l’omologazione, più crescono i ritorni identitari, le cose sono dialetticamente connesse, bisognava capire che la cosa è quasi fatale. E non c’è più un centro a fare da regolatore del traffico.

5. Difficile, perciò, orientarsi in questo caos, ma forse non impossibile. Qualcosa si può aggiungere, bisogna cercare di scoprire delle linee di tendenza più determinate storicamente per comprendere gli effetti del 1989.
Diversi, dunque, da quelli attesi, soprattutto da quelli che apparivano i vincitori di quella data: America ed Europa, e nel suo insieme quell’Occidente che aveva promosso la globalizzazione. La conseguenza più evidente, che sta diventando clamorosa, è proprio lo spostamento degli equilibri mondiali verso grandi paesi, dalla Cina alla nuova Russia, a potenze asiatiche minori, inedite e pericolose alleanze medio-orientali, la Turchia neo-ottomana, il Sud-America in rivolta, i migranti ora quasi fermi (ma per quanto?), un mondo di disperati alle porte. Cina e Russia all’attacco dell’Occidente, come dicono gli analisti, con armi di penetrazione diverse, la democrazia liberale in affanno, alla mercé spesso di più o meno imponenti reazioni populistiche. E l’Europa come tale, nel suo processo di integrazione, in grande difficoltà, senza voce politica in un mondo in tempesta, un mondo indecifrabile con le nostre vecchie categorie. L’Europa senza una idea che la guidi, per cui vive di ciò che si è fatto nel passato, che è tanto, ma, come sempre avviene in questi casi, il passato resta muto, non sa che dire su ciò che accade o sta per accadere oggi.

6. E qui, sull’Europa, c’è da aggiungere qualcosa che ho vissuto come esperienza reale al Parlamento europeo in quell’anno fatale: si respirava una grande euforia, l’idea che si stesse avviando una globalizzazione addolcita, un cosmopolitismo buono, guidato dall’Occidente più che mai centro del mondo e da una espansione inarrestabile della democrazia. Si viveva l’unificazione del continente verso i paesi dell’Est come un fatto carico di futuro, e l’unificazione della Germania, di questo cuore centrale dell’Europa, come il vero fatto destinato a fare epoca. Nelle università europee si esaltava l’Europa “potenza civile”, modello in espansione in tutto il mondo. Oggi il quadro è diverso, girano poche idee, come se proprio sull’Occidente e sull’Europa la globalizzazione agisse non solo per rompere la sua unità – esemplare la politica di Trump che dichiara l’Europa nemico principale, e non c’è bisogno qui di dire di più – ma per indebolire proprio i tratti essenziali e ideali delle democrazie rappresentative, il prodotto più bello dell’Occidente civile. Il globalismo ha determinato uno sviluppo straordinario in grandi paesi arretrati, milioni e milioni di uomini si sono liberati dalla fame. Da noi, è avvenuto l’opposto, l’Occidente non è più il centro del mondo come era abituato a essere. L’impoverimento dei ceti medi in Europa non è solo un grave fatto economico, giacché, con la loro crisi, cade in larga parte la mediazione culturale con la quale si è costruito ciò che c’è dell’Europa integrata. L’accento giustamente va sull’economia che stenta a riprendersi dopo la crisi e sulle diseguaglianze che aumentano, ma il dato cui ora ho accennato va valutato come quello che può costituire l’anticamera di un vero declino. La crisi culturale invade il ceto riflessivo e le università, dove si è formato nel passato il discorso sull’Europa. Oggi questo tema è in disuso, e pochi se ne accorgono.

6. Che fare? Il solito drammatico interrogativo in tempi di crisi. Non esistono formulette risolutive, la cantilena sui soliti diritti da espandere, bisogna prepararsi a una lunga lotta dove cultura e politica si intrecciano. Sta incominciando una nuova guerra fredda contro un Occidente diviso e incerto. Bisogna darsi dei compiti, e le idee devono farci compagnia. L’Europa lo ha, un compito preciso: mostrare nelle cose la possibilità del passaggio da una democrazia interna allo Stato-nazione a una democrazia politica sovranazionale, a una nuova sintesi tra cosmopolitismo e territorialità che vinca la tentazione sovranista e populista di chiudere i confini, ma sia capace di tener conto che il globalismo non può annullare gli spazi storicamente determinati delle nazioni; e l’Europa ha il compito di affermare, nel mondo, la possibilità del reciproco riconoscimento di una comune umanità, pure come elemento di salvezza della Terra, questo per impedire ai reazionari di dichiarare il fallimento della democrazia liberale e l’avvio di nuovi autoritarismi, ognuno rinchiuso nelle proprie nuove cortine di ferro. Caduto “il” Muro, ne possono sorgere, ne stanno sorgendo dappertutto tanti altri! Si apre un periodo assai lungo e gravido di rischi. Talvolta accade che proprio l’estremo pericolo faccia suonare la campanella della salvezza.

Biagio De Giovanni

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