Forse nessuna città come Berlino è stata il cuore di tenebra pulsante del Novecento. Al tempo stesso fucile e bersaglio, carnefice e vittima, aquila nera conficcata nel fango e angelo bianco in cima alle colonne. Il suo Muro famigerato, Die Mauer, venne costruito nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 e picconato il 9 novembre 1989. Sono trascorsi trent’anni da quella storica giornata che segna la fine del “secolo breve” e rappresenta oggi uno spartiacque essenziale fra la tragica stagione dei totalitarismi novecenteschi e la nuova globalizzazione economica.

Chi giunge alla sommità della Fernsehturm, la torre televisiva, regina del gioco di Shangai, con la testa che s’illumina e le zampe nascoste del fenicottero, può riconoscere, osservando la forma dei palazzi sottostanti, la cicatrice del Muro: squadrati a Est, simili a guarnigioni schierate; asimmetrici a Ovest, quasi fossero stati costruiti dopo un rompete le righe. Furono queste le due anime contrapposte del ventesimo secolo: il fischio di squadra e l’istinto di fuga. La volontà di potenza e il trionfo della fantasia. Guardando giù in basso ancora oggi è possibile vedere la loro pelle morta e apprezzare con evidenza plastica sino a che punto il Muro berlinese abbia rievocato le tragiche separazioni del passato prefigurando quelle future: così come fra quei mattoni posti in mezzo alle case danzarono i fantasmi dei ghetti nazisti, negli ultimi scampoli visibili ancora oggi sembrano spuntare, come cellule tumorali, le nuove barriere che dividono il mondo: dagli steccati di Ciudad Juàrez, al confine blindato di Israele e Palestina, dalle recinzioni che corrono per centinaia di chilometri fra India e Bangladesh alle frontiere delle enclavi spagnole a Ceuta e Melilla.

Ho scelto le foto di questa mostra, “Il Muro Infinito”, dal prezioso archivio del Craf di Spilimbergo, affidandomi a un criterio puramente lirico. La sfolgorante stagione tedesca viene quindi rievocata in quattro stazioni essenziali: i malinconici e per certi versi struggenti anni Settanta del cielo diviso, quando Berlino era un’isola, niente più che uno scoglio di autostrade, parchi e grattacieli nel grande mare comunista; la spettacolare riunificazione, proiettata e commentata sugli schermi di tutto il mondo, alla maniera di un documentario in presa diretta; i tempi nostri della voluta e in certo senso commovente ricucitura, con l’elaborazione collettiva del mito libertario che risponde all’infamia totalitaria ponendo le basi per trasformare la capitale della Germania nella nuova tappa di formazione della gioventù europea; sino alle emergenti sfide e speranze multietniche, un terreno instabile dove a volte tornano a riaffacciarsi gli spettri del passato: i turchi di Kreuzberg li fronteggiano. Il Vecchio Continente degli egoismi nazionalistici, che qualcuno forse illudendosi credeva fosse morto per sempre. È come se Berlino non ci avesse insegnato niente e fosse ancora ridotta, stavolta simbolicamente, a una distesa di macerie. La democrazia è un bene prezioso, non naturale ma culturale, fragile e affascinante, che ogni generazione è chiamata a riconquistare, giorno per giorno, ora per ora.

Eraldo Affinati

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