Viktor Orban, da “elefante nella stanza” a leader europeo in quanto presidente semestrale dell’Unione europea: anche senza mandato espresso dagli altri vertici dell’Ue, in neanche una settimana ha toccato tre capitali fondamentali per la sicurezza internazionale, da Kyiv, a Mosca, a Pechino. È innegabile che l’attivismo del leader magiaro sia ancor più evidente in una situazione di conflitto che in Ucraina sembra ogni giorno raggiungere nuovi picchi di scontro militare e di vittime civili. Un politico tanto amato (ma anche controverso!) in patria, tanto apprezzato o più spesso odiato in Europa, ha fatto della piccola Ungheria un nuovo “Maverick” internazionale. Per capire – e poi magari anche criticare – Viktor Orban è dunque necessario guardare la politica ungherese con gli occhi degli elettori magiari, e da qui partire e vedere la politica ungherese in Europa e nel mondo.

Il giovane liberale anticomunista, che portava il Fidesz al governo tra 1998 e 2002, costruiva un’alternativa nazionale rispetto al governo socialista del primo decennio del nuovo secolo: dal 2010 riapriva tutte le questioni irrisolte dell’Ungheria post-Trianon, che esce dalla Prima guerra mondiale come responsabile (al pari dell’Austria) del conflitto al punto da lasciare fuori dai nuovi confini un terzo dei magiari dell’epoca. Chi ha avuto occasione di incontrare il leader ungherese e di vivere e frequentare l’Ungheria (e gli ungheresi delle minoranze fuori dai confini) sa che il carisma di Orban è indiscutibile: empatico, politicamente scorretto, animale politico sempre capace di solleticare i sentimenti più profondi dell’elettorato, è riuscito a convincere anche gli ungheresi più anti-russi che la Russia di Putin può essere in qualche modo utile alla piccola Ungheria, incastonata tra il centro e l’Est europeo nel gruppo di Visegrad con polacchi, cechi e slovacchi.

Libero da una frontiera con la Federazione Russa, sente l’insofferenza ungherese per il nazionalismo di Kyiv, che si riflette anche sulla minoranza ungherese nell’Ucraina sub-carpatica. Rilancia una “rivoluzione silenziosa” per riformare lo Stato e la Costituzione in senso nazionalista, nonché per dare un passaporto agli ungheresi oltre frontiera (che naturalmente votano massicciamente Fidesz), e poi – di fronte alla critica dei “liberali” occidentali di essere troppo conservatore – dichiara il proprio modello nella “democrazia illiberale” in quanto l’Ungheria, nel suo piccolo, può essere ancora riferimento nella battaglia sui valori: “Dio, patria e famiglia” da un lato, mentre dall’altro accoglie la visita apostolica del “Papa della globalizzazione”, Papa Francesco. E poi la battaglia sui (o meglio “contro”) migranti: l’Ungheria è un piccolo paese (10 milioni di abitanti), con una grande capitale e una grande provincia dove stranieri non europei sono una rarità, e questo tema gli porta il consenso degli ungheresi più critici del regime orbaniano (“corrotto, familista e nepotista”) che lo votano turandosi il naso, rispondendo a un sentimento diffuso di nazione-tribù minacciata nella sua stessa esistenza. Orban diventa così il leader europeo di riferimento per i Salvini e gli Abascal in cerca di assi anti-migranti.

Fino a qualche settimana (se non giorno fa), Budapest sembrava isolata e cercava una certa visibilità attraverso una pratica del “leverage”, sull’allargamento della Nato, sull’adesione dell’Ucraina all’Ue, sulle forniture di armamenti a Kyiv (il tutto da posizioni definibili “dialoganti” se non amichevoli con la Russia di Putin). Nel mezzo c’erano i fondi (a fine 2023 calcolati per un totale di circa 30 miliardi di euro) congelati, da sbloccare, da erogare nel tempo sicuramente vitali per il budget del paese danubiano. Nel frattempo Orban da Budapest tesseva una tela di critici (se non “eretici”) della politica europea, con Robert Fico da Bratislava e Andrej Babis da Praga, e fuori dall’Ue con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e la Serbia di Aleksandar Vucic. Su posizioni “trumpiane” per Gaza e Israele,business oriented” con la Cina di Xi, non nasconde l’apprezzamento per la forte leadership di Putin in Russia, ma è sempre attento a trovare con Jens Stoltenberg posizioni “differenti” ma di allineamento alla Nato.

Qualche mese fa Budapest si confermava pronta a dialogare, attraverso l’Italia, con Ursula von der Leyen (sfruttando il nuovo asse “al femminile” di Roma con la Commissione), a mantenere aperto il dialogo con Kyiv (purché sulle condizioni della minoranza ungherese in Ucraina si torni alle autonomie di un decennio fa), in ambito Nato (ribadendo “l’opportunità” di una visita dei vertici svedesi nel paese danubiano). E dopo lo sblocco da parte della Commissione delle rate dei 10 miliardi di fondi avvenuta lo scorso dicembre, l’uscita dalla stanza dal successivo vertice europeo – forse suggerita proprio attraverso la mediazione della presidente del Consiglio italiana – permetteva di approvare l’atteso fondo di 50 miliardi per gli armamenti a Kyiv.

E poi il Fidesz di Viktor Orban, dopo il ventennio passato insieme ai popolari europei (dopo l’entrata, da forza di governo, nel maggior gruppo dell’Europarlamento nel 2000, e dopo la polemica uscita alla vigilia dell’espulsione nel marzo del 2021), negli ultimi anni ha lasciato in secondo piano l’attività parlamentare per concentrarsi sulle strategie di “veto” in ambito di Consiglio europeo. Ora, dopo i risultati delle recenti elezioni europee che hanno premiato in vari paesi formazioni politicamente vicine al Fidesz ungherese, Orban ha rilanciato la sua azione anche in ambito europarlamentare, con il lancio dei Patrioti per l’Europa”, un nuovo eurogruppo che ambisce a presentarsi come il terzo gruppo all’Europarlamento. Orban, leader più longevo al potere in Ungheria, pur con tante ombre, tesse una tela fatta di pragmatismo e affari: non sappiamo se e con quali risultati diplomatici, di sicuro nel mentre con una visibilità politica internazionale per il piccolo Stato magiaro e, chissà, con qualche nuova finestra di apertura per l’Unione europea.

Andrea Carteny

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