Tira un’aria di stanchezza, a tratti di fastidio verso l’antimafia. Dopo tre decenni di incessante attenzione al tema della lotta ai clan spira una certa insofferenza verso protagonisti, coreuti ed epigoni del complesso mondo in cui si articola l’antimafia in Italia. Magistrati di prima linea, giornalisti sempre ben informati, improbabili analisti, interessati sostenitori scontano il prezzo di un certo logorio mediatico e di un cedimento di consenso che non deve essere inteso come pericolosa acquiescenza al malaffare. Nulla di grave sia chiaro. Il contrasto alle organizzazioni non ha bisogno di alcun sostegno mediatico, né di fiancheggiatori osannanti, ma la linea di frattura tra gli apparatčik intranei a questo mondo, e la società civile tende ad allargarsi e le ultime vicende di “dossieropoli” certo non aiutano.

Si pone, quindi, l’esigenza di comprendere – dopo anni di legislazioni speciali, doppi binari, carceri d’eccezione, regimi differenziati – se l’antimafia abbia bisogno o meno di una profonda revisione. Oppure se si tratti semplicemente di accrescerne le competenze processuali e informative come avvenuto, da ultimo, con l’ultimo decreto Giustizia nelle cui pieghe (in sede di conversione e con una certa sorpresa) si è prevista la partecipazione della Procura nazionale e delle procure distrettuali alle strutture governative di contrasto al cybercrime. In fondo le nubi scure che si sono addensate sugli uffici di via Giulia, sede della Procura nazionale, sono solo la manifestazione più appariscente di un problema di fondo che attanaglia la lotta alle mafie da qualche anno. Non importa, ora, comprendere se qualcuno abbia deviato dai propri doveri e se reati siano stati commessi (si vedrà) nell’accesso alle banche dati. La questione è addirittura marginale rispetto al problema che resta in penombra in questi giorni, ovvero comprendere perché gli uffici giudiziari italiani, le articolazioni più sofisticate del potere inquirente debbano essere provvisti di un patrimonio informativo immenso e capace di espandersi in ogni direzione in modo pressoché illimitato. La domanda è semplice: la lotta alla mafia ha davvero bisogno di tutto questo apparato, di uno strumentario informativo così imponente? Dipende, verrebbe da dire.

Abbiamo detto in un’altra occasione che la banca dati della Procura nazionale è uno strumento che non ha eguali al mondo, nessun ufficio del pubblico ministero dispone di un “proprio” archivio di dati, notizie e informazioni paragonabile a quello di via Giulia che, peraltro, lo gestisce in assoluta autonomia. Le necessità di coordinamento e di collegamento investigativo tra le varie sedi di procura del paese necessitava e necessita di uno strumento del genere perché le indagini, i processi, le prove sono elementi indispensabili, fragili, volatili che sfuggono alle stesse forze di polizia e che sarebbero dispersi altrimenti. Il caso è semplice: la polizia giudiziaria verbalizza le dichiarazioni di un teste o di un pentito e le trasmette al pubblico ministero; talvolta sono necessari anni per comprendere davvero se quel narrato sia attendibile o meno; senza una banca dati giudiziaria non si avrebbe traccia della “storia” di quelle dichiarazioni.

Altra cosa è il territorio scivoloso e sdrucciolevole delle pre-investigazioni. Cosa siano è abbastanza difficile spiegarlo e, non a caso, una dottrina autorevole ha mosso serrate critiche al ricorso alle pre-investigazioni da parte della Procura nazionale. Ci si chiede se possa un ufficio giudiziario muoversi liberamente, senza operare alcuna iscrizione a garanzia dei pre-investigati, raccogliere informazioni, dati o anche semplici notizie per promuovere le vere e proprie indagini da parte delle procure distrettuali. E qui torna prepotente il tema della direzione presa dalla lotta alla mafia in Italia da qualche anno a questa parte. Le collaborazioni di giustizia arrancano, le testimonianze scarseggiano, le misure di prevenzione sono sotto il fuoco di fila delle Corti nazionali ed europee, il riciclaggio resta un mondo sconosciuto, quasi totalmente ignoto in cui, forse, convergono gli interessi di Stati ostili, di evasori sistematici, di corruzioni endemiche. A queste condizioni è inevitabile che si sia esplorata, in modo più vigoroso dal 2015 in poi, la via dell’aggancio del sistema antimafia alle più disparate fonti informative, ampliando il raggio di azione della banca dati giudiziaria ben oltre la soglia storica delle operazioni sospette, per ampliarne il bacino di ricerca. Emblematica l’individuazione di raccordi informativi anche con il DIS, organo di vertice dei servizi segreti italiani.

L’orizzonte delle indagini vere e proprie rischia, forse, di inaridirsi e per evitare di spiaggiare gli apparati nelle secche di filoni asfittici e marginali, è stato con acume tentato di rafforzare lo strumento delle pre-investigazioni in modo da trasformare la Dna da mero luogo del coordinamento a fonte propulsiva votata alla ricerca di mafie sempre più acquartierate nell’ombra e sempre meno visibili con gli strumenti ordinari (intercettazioni comprese).
Le scorrerie sulle banche dati, in quest’ottica, non solo sono previste, ma addirittura sono necessarie perché i sistemi di intelligenza artificiale si nutrono anche degli accostamenti e delle esplorazioni tentate dai pre-investigatori e dalle squadre a loro disposizione.
Lo scenario trova, oggi, impreparato il legislatore e la politica che non ha percepito la torsione del sistema dell’antimafia in questa direzione e si allarma per la scoperta di un metodo di indagine che esonda dal codice di procedura penale e dalle regole note del processo di prevenzione. Una tracimazione inevitabile verso giacimenti informativi più complessi e rilevanti per individuare la nuova dislocazione delle famiglie mafiose più pericolose e che attende una governance. Il legislatore, come spesso accade (v. il monito recente del presidente della Consulta), può ritrarsi e lasciare alle toghe l’autodisciplina di questa attività di pre-investigazione oppure può decidere di regolarla facendo attenzione a non burocratizzare e ingessare lo strumento. Certo, ormai, non può dire di non sapere e si deve fare i conti con un’antimafia che per vivere e, in parte, sopravvivere deve procurarsi nuovi obiettivi. Il rischio è che cerimonie e commemorazioni impoveriscano anche il consenso della pubblica opinione che si chiede legittimamente come mai si sia rimasti quasi “ciechi” di fronte alle nuove minacce delle cosche.