L’Australia ha deciso di fare ciò che molti, in Occidente, discutono da anni senza mai trovare il coraggio politico: vietare i social network ai minori di 16 anni. La nuova legge è entrata in vigore ieri, e impone alle piattaforme un obbligo stringente di verifica dell’età, con sanzioni pesanti per chi non rispetta le regole. È uno dei provvedimenti più radicali al mondo a tutela dei minori, nato da studi approfonditi: l’esposizione precoce ai social sta producendo effetti devastanti sulla salute mentale degli adolescenti, con tassi crescenti di depressione, autolesionismo, dipendenza digitale, cyberbullismo e adescamento online.

Mentre Canberra stringe, l’Europa arranca. Da anni Bruxelles annuncia un grande intervento contro i rischi sui minori del digitale, ma il quadro resta confuso. Il Digital Services Act è stato applicato con severità, però in un caso prettamente politico: la maxi-multa a Elon Musk per la gestione di X, si parla di 120 milioni di euro. Una dimostrazione muscolare di potere regolatorio, certo, ma anche una scelta selettiva. Perché lo stesso zelo non viene applicato su TikTok, che in Europa raccoglie dati di milioni di minori e utilizza algoritmi opachi, già considerati a rischio manipolazione dagli stessi governi europei?

La Francia, almeno, qualcosa ha fatto, senza aspettare l’Europa: ha imposto un giro di vite su TikTok e sulle app cinesi, vietandole ai dipendenti pubblici e chiedendo trasparenza sugli algoritmi. Parigi non si muove per caso. Durante le proteste nelle banlieues del 2023 e del 2024, il governo francese ha accusato apertamente TikTok di aver amplificato la mobilitazione giovanile, di aver spinto contenuti violenti e di aver polarizzato ulteriormente il conflitto sociale. Secondo l’Eliseo, la combinazione di anonimato, viralità accelerata e algoritmi ottimizzati per l’emotività ha trasformato il social in un vero moltiplicatore di tensioni, con un ruolo concreto nel coordinamento spontaneo delle rivolte. Non è stato un episodio isolato ma, al contrario, la dimostrazione di quanto un’app straniera possa intervenire – e influire – sulle dinamiche interne di uno Stato europeo.

Ma la Francia resta un caso isolato. Nel resto dell’Unione domina la solita lentezza: studi preliminari, tavoli tecnici, consultazioni infinite. Mentre si discute, generazioni intere di adolescenti continuano a vivere immerse in piattaforme che sfruttano vulnerabilità psicologiche note, e progettate per massimizzare il tempo di permanenza online. Senza contare il fatto che consegniamo alla Cina, non proprio un partner affidabile dell’Occidente, come appunto mostra il caso francese, una quantità impressionante di dati, anche sensibili, senza sapere esattamente che uso ne verrà fatto.

Il paradosso europeo è evidente: si punisce Musk con durezza, ma si chiudono gli occhi davanti a TikTok, nonostante i rischi a cui ci si espone. L’Ue colpisce ciò che è politicamente più semplice – una big tech americana malvista da molti governi – mentre rimanda le decisioni sulle piattaforme cinesi, forse per timore di conseguenze diplomatiche ed economiche, o più banalmente perché fatica a trovare accordi che vadano bene a tutti gli Stati.

L’Australia ha scelto una strada netta e pragmatica: proteggere i minori anche a costo di misure drastiche. L’Europa, invece, continua a preferire l’ambiguità normativa, oscillando tra slanci regolatori e cautele geopolitiche. Ma i problemi non aspettano. E la domanda è: quanto dovremo ancora attendere prima che l’Ue faccia ciò che ormai è necessario?