Benjamin Netanyahu si trova in un momento complesso. L’ennesimo da quando Hamas ha assaltato il sud di Israele dando il via a una guerra che fa tremare il Medio Oriente. L’inviato dell’amministrazione Biden per il dossier libanese, Amos Hochstein, dopo avere incontrato tutti i più alti rappresentanti israeliani a Gerusalemme, ieri è sbarcato in Libano per fare il punto della situazione con le controparti del Paese dei cedri. Il governo di Beirut non ha dubbi: nessuno, nelle istituzioni libanesi, vuole un’escalation e una guerra diretta con Israele. Il primo ministro libanese, Najib Mikati, incontrando Hochstein a Beirut, ha spiegato che “ciò che serve è fermare l’aggressione israeliana contro il Libano e ritornare alla calma”, e che questa “è una priorità per noi e per i nostri amici”. Ma le volontà dello Stato centrale si scontrano con quelle di Hassan Nasrallah e della sua milizia, Hezbollah, che dal 7 ottobre scorso ha avviato una guerra a bassa intensità con le Israel defense forces. Ieri, con un chiaro messaggio di avvertimento e di propaganda, il gruppo filoiraniano ha pubblicato un video in cui venivano mostrate le immagini dall’alto del nord di Israele e in particolare del porto di Haifa. E nelle ultime settimane, la tensione tra le due parti si è innalzata sensibilmente. Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz, in una nota, ha detto che è molto vicino “il momento in cui decideremo di cambiare le regole del gioco contro Hezbollah e il Libano. In una guerra totale, Hezbollah sarà distrutto e il Libano sarà colpito duramente”.

Il tempo sta per scadere

L’ormai ex membro del gabinetto di guerra israeliano, Benny Gantz, ha ribadito che il tempo per una soluzione negoziale con le forze sciite libanesi sta per scadere. E incontrando Hochstein, ha detto di avere sottolineato il suo impegno per eliminare la minaccia che Hezbollah rappresenta per i cittadini del nord di Israele, “a prescindere dagli sviluppi della guerra a Gaza” e che sosterrà “qualsiasi decisione politica o militare responsabile ed efficace in merito dall’esterno del governo”. E ciò indica che l’eventuale azione contro il Partito di Dio non è solo un’ipotesi del Likud e degli alleati di governo di Netanyahu, ma trasversale a buona parte dell’arco costituzionale israeliano. Gli Stati Uniti vogliono evitare a ogni costo che il fronte nord si infiammi. E il timore non è solo legato all’incendio che potrebbe divampare in Libano e probabilmente anche in Siria, ma anche alla reazione dell’Iran (prossimo alle elezioni presidenziali) e di tutta la costellazione sciita in Medio Oriente. A partire dagli Houthi dello Yemen.

La sicurezza

Ma per evitare il conflitto, si deve giungere a una soluzione che garantisca la sicurezza della popolazione israeliana e che dia modo a Beirut di ricevere assicurazioni sul sud del Libano e a Hezbollah di non perdere la faccia. Scenario molto difficile da raggiungere: soprattutto perché il fronte nord è legato a doppio filo a quanto succede nella Striscia di Gaza. Ieri, i media palestinesi hanno rilanciato la notizia della morte di 17 civili, uccisi dopo un bombardamento contro una casa nel campo profughi di Bureij, e in un raid in un’area commerciale di Nuseirat. E l’Idf ha continuato le sue operazioni sia a Rafah che in altre aree della Striscia, pur confermando le pause umanitarie per permettere l’accesso degli aiuti per la popolazione. Per le forze armate si tratta di una fase complicata. La recente morte di diversi soldati tra Rafah e altri teatri di battaglia ha confermato l’enorme sfida rappresentata dall’avanzata nell’exclave palestinese. E ieri, un documento pubblicato dall’emittente pubblica israeliana Kan ha rivelato che l’esercito era a conoscenza già a settembre di un piano di Hamas per rapire tra i 200 e i 250 cittadini israeliani: scenario poi realizzato il 7 ottobre. Al momento la Corte Suprema ha bloccato le indagini sulle falle negli apparati israeliani perché considerato rischioso nel mezzo della guerra. Ma appare evidente che prima o poi Netanyahu, il governo e le alte sfere di intelligence e forze armate dovranno gestire il dossier delle responsabilità di quanto accaduto o non previsto quel tragico giorno di ottobre. Bibi lo sa, e lo sa anche una piazza sempre più frustrata dall’andamento del conflitto e dalla mancata liberazione degli ostaggi.

Il momento di tensione

Il premier non ha lesinato critiche feroci nei confronti dei manifestanti (alcuni dei quali sono stati arrestati negli scontri avvenuti il giorno prima a Gerusalemme). E le parole del vicepresidente della Knesset, Nissim Vaturi, sui manifestanti come “braccio” di Hamas, certificano la tensione sempre più alta nella società israeliana. Il premier deve capire come gestire questo momento di tensione, pressato dal fronte interno e da quello internazionale. Ieri, i media americani hanno rivelato che alcuni influenti democratici avrebbe sbloccato la vendita di 50 caccia F-15 a Israele dal valore di 18 miliardi di dollari.
E Netanyahu ieri ha ribadito pubblicamente che il segretario di Stato Anthony Blinken si era impegnato a rimuovere i limiti all’export di armi Usa per Israele. Un dossier delicato anche per Joe Biden, che ha davanti a sé un’elezione molto difficile e un elettorato democratico sempre meno convinto del supporto militare allo Stato ebraico.