Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rotto gli indugi. Dopo l’uscita di scena del leader di opposizione, Benny Gantz, e dopo giorni di intense pressioni, Bibi ha deciso di sciogliere il gabinetto di guerra. Una mossa ponderata da tempo, giustificata dall’ufficio del premier come una conseguenza delle dimissioni dell’ex ministro della Difesa. Era stato il leader di Unità nazionale a chiedere la creazione di questo organismo e il suo inserimento: tutto nel quadro di un governo di emergenza. E per i collaboratori del premier, in assenza di Gantz (e con lui dell’ex capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot in qualità di osservatore) non aveva senso continuare a mantenere in vita questo forum che dall’11 ottobre scorso gestiva la reazione all’operazione militare contro Hamas. Dietro le dichiarazioni e le giustificazioni formali della politica, si nascondono però altre questioni: trattative interne ed esterne che fanno capire come la strada intrapresa da Netanyahu sia stata di fatto quella più drastica ma anche obbligata. Dopo le dimissioni, il posto vacante di Gantz era stato messo nel mirino soprattutto dal ministro della Sicurezza interna, Itamar Ben-Gvir. E sia lui, sia l’altro leader della destra radicale, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, avevano fatto intendere che l’ingresso delle loro forze nella “stanza dei bottoni” del conflitto sarebbe stata una scelta apprezzata.

Lo scenario

Il punto, però, è che questa strada avrebbe ricevuto un’accoglienza a dir poco fredda sia da parte di molti segmenti delle forze armate israeliane, sia da parte del ministro della Difesa Yoav Gallant, sia da parte degli Stati Uniti. E l’amministrazione Biden ha fatto da tempo capire che gli exploit degli esponenti ultranazionalisti israeliani sono considerati un enorme ostacolo ai rapporti con il governo dello Stato ebraico. Non è un caso che i media israeliani, a partire da Yedioth Ahronoth, abbiano specificato che le prossime decisioni sul conflitto a Gaza (e sugli altri fronti) saranno prese dopo consultazioni tra Gallant, Netanyahu e alti funzionari della Difesa. E che da queste consultazioni sembra saranno esclusi proprio i due ministri che volevano entrare nel gabinetto di guerra, i quali saranno resi edotti delle scelte solo nell’ambito del gabinetto di sicurezza allargato.

L’arrivo Amos Hochstein e l’occhio di Washington

Per il governo israeliano si tratta di un momento di svolta non indifferente nella gestione della guerra. Ed è arrivata nel giorno in cui nel Paese è sbarcato l’inviato statunitense Amos Hochstein: l’uomo di Joe Biden per il delicato dossier-Libano. I venti di guerra tra Israel defense forces e Hezbollah si fanno sempre più intensi. E mentre nella Striscia di Gaza il conflitto continua (ieri l’Idf ha chiarito che le pause umanitarie per gli aiuti non implicano la fine delle ostilità a Rafah e in altre aree), l’occhio di Washington osserva con attenzione anche il problema settentrionale. Hochstein ha incontrato a Gerusalemme il presidente Isaac Herzog, Netanyahu, il ministro per gli Affari strategici Ron Dermer, il consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi, il segretario militare Roman Goffman, il consigliere politico Ofir Fleck e la viceambasciatrice Usa, Stephanie Hallett. Il rappresentante americano ha poi visto anche i leader dell’opposizione, e cioè Gantz e Yair Lapid. E l’impressione è che il governo americano voglia avere garanzie certe sulla stabilità del fronte. Nelle ultime settimane, la guerra a bassa intensità tra Israele e milizia sciita libanese ha subito una brusca escalation.

La sicurezza nel nord

E se il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha avvertito che la sua milizia non cesserà gli attacchi su Israele fino a che non sarà raggiunta una tregua nella Striscia di Gaza, l’Idf ha ucciso un altro comandante sciita nel sud del Libano. Mentre il portavoce delle forze armate, Daniel Hagari, ha ricordato che, dall’inizio della guerra, Hezbollah ha lanciato più di cinquemila razzi, oltre a missili e droni contro le comunità israeliane del nord. Francia e Usa provano a trovare un accordo per far sì che la crisi non sfoci in un conflitto diretto che coinvolga l’intero Libano (dove sono presenti anche le forze internazionali di Unifil). Ma se il governo israeliano ha detto che vuole ristabilire la sicurezza del nord del Paese con un accordo o con una guerra, Hassan Fadlallah, alto funzionario di Hezbollah e parlamentare libanese, ha riferito al quotidiano Al-Mayadeen che Israele “non otterrà con la politica ciò che non ha ottenuto con la guerra”. La situazione appare dunque paralizzata. E mentre le posizioni si fanno sempre più dure, Biden cerca di evitare un’escalation dai contorni oscuri. Tanto più perché coinvolgerebbe il principale proxy iraniano in Medio Oriente e con Teheran che attende le elezioni di fine giugno. Il pressing su Netanyahu, sia per le proteste interne che per gli input esterni, aumenta di giorno in giorno. Ma è sempre più chiaro che i due fronti, quello a nord e quello a sud, sono legati da un filo indissolubile.