Forse non sa perdere, come quelli che dopo una batosta a calcetto alzavano la voce e se ne andavano con il pallone. O forse è troppo abituata alla stanza dei bottoni, troppo establishment sociale e culturale, per vivere senza drammi l’alternanza. Certo è che la sinistra reagisce sempre male quando finisce all’opposizione. Diventa estremista. A ben vedere, non è estremista la destra, malgrado quel che ne dice Scholz, malgrado l’accusino di mettere il bavaglio alla stampa. Non è estremista una destra che dopotutto, ha scritto Flavia Perina, si limita a fare le sue politiche conservatrici. È estremista la sinistra, quando le cose non le girano per il verso giusto.

È la sinistra che ha sempre reagito alla perdita del Palazzo forzando i decibel del discorso pubblico, alzando la cortina fumogena dell’allarme democratico, infliggendo agli avversari il cartellino rosso della deriva autoritaria. Così fu, invariabilmente, nei decenni del mafioso Berlusconi, del fascista Fini, del secessionista Bossi. Così è oggi. Da Achille Occhetto a Elly Schlein, da quella prima vittoria della destra nel 1994 al governo meloniano, ciò che non è mai cambiato è la narrativa dell’emergenza, ovvero la delegittimazione di chi gode del consenso degli elettori. Senza assalti al Campidoglio, certo, ma diffondendo il messaggio che una maggioranza parlamentare può essere fittizia (“Meloni non è la maggioranza del paese”, dicevano a piazza Santi Apostoli) e sollecitando la mobilitazione del “paese vero” – del paese costituzionale e democratico – contro chi intende riportare l’Italia ai tempi bui.

Negando agli avversari il riconoscimento della rappresentanza e cioè negando la logica stessa della sovranità popolare. È così diverso l’estremismo della sorridente Schlein dall’estremismo del rabbioso Trump? E naturalmente, una volta che il fisiologico confronto politico si è trasformato nella Resistenza, ecco che lo spirito guerriero del maquis finisce per essere applicato indifferentemente a tutto: al premierato e all’autonomia differenziata, alla giustizia e alla Rai, alla 194 e al ponte sullo stretto. Non c’è tema concreto, non c’è progetto, non c’è disegno di legge che non venga trasfigurato, grazie alla narrativa dell’ultima spiaggia, nel confronto estremo – estremista – tra libertà e autoritarismo, tra diritti e manganello, tra equità e privilegio, tra legge e mafie. Ed è perfino inutile aggiungere come tutto ciò, oltre a rinchiudere la sinistra all’interno del proprio sempiterno zoccolo emotivo e ideologico, depotenzi in modo sistematico quel che, a parole, è il totem dell’opposizione, il parlamento.

È il parlamento che diventa il ring di uno stanco rito pugilistico, sussurri e più spesso grida, tentazioni aventiniane, bandiere tricolori sventolate come allo stadio, la costituzione impugnata come un crocifisso. E chi sperava in un confronto – aspro ma costruttivo – di proposte, controproposte, emendamenti, correttivi, è meglio che aspetti il prossimo giro. À la guerre comme à la guerre.