Massimo Zedda, neo-rieletto sindaco di Cagliari (era stato già sindaco dal 2011 al 2019) lancia dal Riformista un appello all’unità di tutte le opposizioni.

Una bella rielezione, la sua. Un ritorno dopo anni di centrodestra, a Cagliari.
«Un tempo si sarebbe detto: rinnovamento nella continuità. Che nel Pci era l’affiancamento nelle istituzioni di giovani e persone di esperienza. Qui l’esperienza amministrativa c’è, ora va dato il segno della discontinuità. Il mio modello è stato quello di unire tutti, di buttare giù gli steccati e valorizzare i punti in comune, che sono spesso più di quelli che ci dividono».

Lei ha fatto in tempo a vedere la Fgci, mancano oggi le organizzazioni strutturate dei partiti?
«Evidentemente sì. Mancano le scuole di formazione dei dirigenti, i partiti strutturati che costringevano a studiare, a imparare a muoversi in politica. C’erano le sezioni, i circoli. E la loro assenza la scontiamo tutti».

Da uomo di sinistra che percorso ha fatto?
«Fgci, Sinistra Giovanile. Pds, Democratici di sinistra e poi non aderii al Pd nel 2007 e insieme a Giovanni Berlinguer e Fabio Mussi andai in quella formazione che è poi diventata Sel, che oggi è diventata Avs. L’unico partito a cui sono iscritto è quello dei Progressisti, che esiste solo in Sardegna. Non mi sono mai iscritto al Pd, rimango un uomo di sinistra che si interfaccia con tutti i partiti».

Questo suo stare fuori dai partiti organizzati è stato una sua forza, a giudicare dai risultati…
«Ho sviluppato una capacità dialogica con tutti, senza rinnegare le mie idee. E questo mi dà anche la forza di dire a tutti, quando li vedo da fuori: “Smettetela di litigare”. Perché dividendosi si dà modo agli altri di continuare a vincere».

Unire è la sua parola chiave. Ha raccolto tutti, e messo tutti d’accordo.
«Abbiamo messo insieme Verdi e sinistra, Pd, Cinque Stelle, Più Europa. Italia Viva e Azione ha lasciato libertà di scelta ai suoi simpatizzanti e mi sembra di capire che mi hanno votato anche loro. Ecco come si arriva al 60%».

Dicono che lei abbia anche buoni rapporti personali con tutti…
«Aiuta, provare a andare d’accordo con tutti. Perché se ci sono impuntature caratteriali e spigolosità personali poi far crescere le alleanze può diventare complicato. Ma per stare sulla poltiica, il collante è il programma».

Quale può essere la formula Zedda, a livello nazionale?
«Non è una formula mia, è la fotografia della realtà. Prendiamo i dati delle Europee: ci dicono che il 53% degli elettori non sostiene il centrodestra.
E sa perché allora governano loro? Perché non si dividono. Firmano un programma comune e provano a accontentare ora l’uno, ora l’altro. Io dico che si possono mettere insieme tutte le opposizioni, da Bonelli e Fratoianni a Schlein, da Conte a Magi, da Renzi a Calenda. Se ci riuscissimo non solo cambieremmo di segno l’Italia, ma metteremmo il Paese in condizione di tornare a crescere».

Sta parlando di un nuovo Ulivo, con tutti dentro.
«L’Ulivo governò bene per due volte, in condizioni difficili, realizzando riforme importanti. Ma guardo ancora indietro, alla storia italiana del dopoguerra. Le grandi riforme, pensiamo allo Statuto dei lavoratori, vennero fatte perché Pci e Dc seppero trovare un accordo.
E sostenevano due visioni del mondo, allora spaccato dalla guerra fredda, assai diverse. Trovare unità su temi condivisi è alla base del fare politica. Della politica alta: allora c’erano Moro e Berlinguer, per capirci. Ma l’esigenza di riunire deve tornare a guidarci».

Cosa pensa dell’azione del governo Meloni?
«C’è una deriva autoritaria istituzionale. La maggioranza adotta provvedimenti sui quali sarebbe indispensabile che ci fosse una condivisione.
Pensiamo alle riforme costituzionali, è incredibile che il centrodestra immagini di cambiare pesi e contrappesi costituzionali senza cercare un dialogo condiviso».

Se ci fosse stata l’unità di cui parla lei, si sarebbero potute vincere le elezioni già nel 2022?
«Sì, la maggioranza tutti-inclusi c’era già nell’ottobre del 2022. Ora la rivediamo, plasticamente, con i numeri del proporzionale delle Europee. Superato questo scoglio elettorale si può lavorare con i tempi giusti a una soluzione unitaria che metta insieme le opposizioni. Tutte. Anche puntando sui riformisti».

Certo, però Azione e Italia Viva escono ammaccati dal voto…
«Sì ma dimostrano di avere un voto stabile del 7-8% dei consensi. Sono indispensabili per vincere. E poi i loro temi sono condivisibili da tutti: quando dicono di volere più Europa, di contrapporsi alla deriva sovranista e al nazionalismo di Orbàn, a Marine Le Pen, dicono cose che condividiamo tutti».

Lei ha tutte le ragioni, sulla carta. Ma la strada è tutta in salita.
«Anche su riforme importanti, se guardiamo alla lentezza del Parlamento sul fronte dei diritti, i sindaci hanno dimostrato spesso di avere più coraggio e di saper anticipare i tempi del legislatore nazionale. Non ci fate una legge? E noi abbiamo fatto i registri delle unioni civili. Alle strade in salita siamo abituati, sappiamo che bisogna pedalare con forza. E le buone esperienze di alleanze ampie nelle città possono essere una buona pratica, un modello vincente. A meno che non si voglia consegnare per sempre il Paese alla destra».

In prima fila ci siete lei e Beppe Sala, su questa idea.
«Non solo, anche qualche segretario – e segretarie – di partito stanno iniziando a ragionare in questi termini. Il fatto che Stati Uniti d’Europa e Azione non siano riusciti a superare lo sbarramento, immagino determini anche in loro una riflessione sul futuro».

Come lo vogliamo chiamare, campo larghissimo?
«Le definizioni non importano. Penso a un programma di pochi punti per il bene del Paese, che incida profondamente sul miglioramento delle condizioni di vita di tutti e tutte. Siamo un Paese dove la metà della popolazione non vota più, perché molti odiano la politica: pensano che sia un intralcio allo sviluppo».

Il modello dell’Ulivo è riuscito a sconfiggere Berlusconi, ma con una maggioranza sempre in bilico…
«Il quadro politico deve prevedere una semplificazione. Avere una miriade di sigle non aiuta la politica. L’altro aspetto è che è vero che certa frammentazione rese fragile l’Ulivo, ma è anche vero che creò le premesse per ravvicinare le altre forze. Lo stesso Pd è nato per la fusione delle esperienze di Pds e Margherita: l’azione di governo avvicina le forze politiche, non le allontana. Salvo eccezioni».

Unire le opposizioni sui temi. Ce ne indica alcuni?
«A mio parere servirebbe un lavoro quotidiano e certosino sulla verifica dei capitoli di spesa pubblica, in termini di spreco e di spesa superflua, da redistribuire come abbattimento del peso fiscale ed aumento degli stipendi. Tra il 1990 e il 2020 Francia, Germania e Spagna hanno aumentato del 40% gli stipendi. Noi siamo a -3%. Se non ridiamo potere d’acquisto alla classe media, che è stata distrutta in questi anni, non torniamo ad avvicinare nessuno alla politica».

Giusto. E poi?
«Lavorare sulla dispersione scolastica, sull’istruzione, sulla formazione. Come diceva Tony Blair. Investire sul futuro, che per noi significa anche intervenire su una delle maggiori emergenze del Mezzogiorno. Ripristinerei quello che negli anni Sessanta consentì a milioni di italiani di avere accesso agli studi: il presalario. Probabilmente andrebbe anche applicato negli istituti tecnici e professionali per scongiurare l’abbandono scolastico. Ai tempi venivano date 500 mila lire agli studenti perché finissero gli studi in tempo, era l’equivalente del valore di una Cinquecento».

Un altro punto?
«Risolvere i grandi problemi infrastrutturali del Paese che arrecano un serio danno alle imprese italiane. Siamo arretrati tecnologicamente, come aree industriali, come infrastrutture portuali e aeroportuali, come strade e ferrovie. Sviluppare in tutte le direzioni possibili i processi di crescita.
E poi affiancare una miriade di interventi locali, nei piccoli e grandi centri, che possono determinare una ricaduta in termini di lavoro nei territori. Per la messa in sicurezza del territorio, le manutenzioni, la valorizzazione del patrimonio culturale e turistico».

Un programma laburista moderno, direi. Che può convincere anche moderati e centristi…
«E’ quella l’idea. Ma non basta, se slegato dall’attenzione al sociale, alla sanità.
E che va accompagnato da una grande attenzione allo scenario internazionale: siamo sempre stati capaci di parlare con il mondo da posizioni diplomaticamente apprezzate da tutti. Dobbiamo riprendere il nostro ruolo di grande mediatore e attrarre talenti, ritornare a quell’Italia del meglio, ripristinare un rinascimento politico».

Per fare grandi cose, occorre un grande leader. Che non si vede all’orizzonte, siamo franchi.
«Iniziamo dal programma. Proviamo a dire cosa ci unisce tutti, più che quello che ci divide. E se poi i leader delle forze politiche individuano un percorso unitario, via al confronto. Alla fine un federatore emergerà, è sempre emerso».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.