Incontriamo Giovanni Fasanella, tra i più noti speleologi delle cavità nascoste della storia italiana, all’indomani dell’uscita del suo Libro nero della Repubblica italiana, edito da Chiarelettere. Lo storico e giornalista lo firma insieme con Mario José Cereghino e ne anticipa per noi gli argomenti chiave.

Come nasce il “Libro nero della Repubblica italiana”?
È un unico contenitore per i quattro libri pubblicati da Chiarelettere nell’arco di un decennio, dal 2010 al 2020: Intrigo internazionale, Il golpe inglese, Il puzzle Moro e Le menti del Doppio Stato. Un lavoro basato su un metodo investigativo che interfaccia fonti diverse ma che, alla fine, sottopone le informazioni alla prova documentale attraverso la ricerca d’archivio e fa emergere i contesti in cui maturarono la strategia della tensione, il terrorismo di matrice politica e mafiosa. C’è un filo rosso che lega le varie fasi del “ventennio” di sangue che va dalla strage di Piazza Fontana del 1969 alle stragi del 1992-’93.

La desecretazione del 2014 ha permesso di scoprire carte significative per le sue inchieste?
In realtà, a mio avviso, la desecretazione del 2014 ha dato ben poche novità. Le poche cose interessanti emerse dai documenti declassificati sono quelle che confermano l’influenza del contesto mediterraneo, cioè la guerra segreta per il petrolio, sulle nostre vicende interne, anche quelle più sanguinose. Il resto è paccottiglia.

E gli archivi inglesi appena svelati?
Molto più interessanti. Dagli archivi inglesi e americani emergono prove inconfutabili sul nesso, quasi sempre negato, tra contesti politico-sociali interni e contesti geopolitici internazionali. Sin dalla nascita come Stato unitario, l’Italia non è mai stata un’entità staccata da tutto quello che c’era ai suoi confini.

Andreotti diceva: «Ogni paese ha i suoi vicini. A noi sono capitati i peggiori».
E aveva ragione. Voleva dire che, per trovare risposte ai cosiddetti “misteri”, bisognava approfondire i conflitti lungo i confini più caldi del Novecento: Est-Ovest (comunismo-anticomunismo) e Nord-Sud (guerra petrolifera). E l’Italia, per la sua posizione geografica, era proprio lungo quei confini, e al centro di quei conflitti.

Cosa scopriremo dai fondi britannici, in particolare?
C’è più storia italiana negli archivi britannici, americani e francesi di quanta ce ne sia nel nostro Paese. Per la semplice ragione che Gran Bretagna, Francia e Usa hanno avuto un ruolo enorme, con poteri di condizionamento, nelle varie fasi della nostra vicenda unitaria. Gli interrogativi riguardano piuttosto la nostra capacità di elaborazione delle esperienze traumatiche temporalmente più vicine a noi.

Non siamo disposti ad accettare il nesso profondo, inscindibile tra l’Italia e il quadro internazionale?
Ci sono molte sacche di resistenza di varia natura. Ma sono ottimista: qualcosa finalmente si muove. Le cosiddette “primavere arabe”, per esempio, hanno cambiato nella nostra opinione pubblica la percezione dell’importanza del contesto mediterraneo. E certe verità che emergono dagli archivi stranieri cominciano ad essere viste con meno diffidenza.

“Il Riformista” ha rivelato come il Sisde, nel 1982, avesse riferito dei preparativi dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con una informativa rimasta lettera morta. Se ne è occupato?
Non ho elementi per esprimere un giudizio fondato. A occhio mi sembra poco credibile che il governo, non gli apparati, pur sapendo dei preparativi in corso, non avesse avvertito gli interessati e non impedito l’attentato. C’è stato un filtro, secondo i documenti pubblicati dal Riformista, è evidente: possiamo pensare che una filiera dei servizi italiani fosse interessata a creare un casus belli. Mi risulta, quanto al lodo Moro, che esisteva un accordo anche sul fronte israeliano.

C’è un segreto intangibile, tra i tanti?
C’è un “indicibile” dell’esperienza italiana. Indicibile, non invisibile. Ma per rispondere alla sua domanda, sa qual è il nostro “segreto” tuttora intangibile? È l’articolo 16 del Trattato di pace del 1946-’47, imposto dalle nazioni vincitrici della seconda guerra alla nazione sconfitta: quello che impone alle autorità italiane la garanzia dell’impunità per molti nostri cittadini che collaborarono con la causa alleata tra il 1940 e il 1947, cioè il periodo che va dall’anno dell’entrata in guerra dell’Italia a quello dell’entrata in vigore del Trattato. Tra gli altri, c’erano anche molti boss mafiosi ed ex republichini passati sotto altre bandiere e utilizzati nel dopoguerra in altre operazioni. Il testo del Trattato si può trovare negli archivi parlamentari e persino su internet. Ma provi a domandare in giro quanti lo conoscono. Eppure, se studiassimo la genesi e gli effetti di quel Trattato, capiremmo le ragioni di tanti depistaggi e deviazioni.

Su Enrico Mattei ha scritto che l’aereo venne manomesso, si è trattato di un omicidio. Perché nessuna Procura riapre il caso?
L’ultima indagine del magistrato Vincenzo Calia ha stabilito che si trattò di un sabotaggio, quindi di un attentato. Un gran risultato. Ma Calia ha dovuto ammettere, con grande onestà intellettuale, di non essere riuscito a trovare le prove per inchiodare esecutori e mandanti. In un recente dibattito con lui all’Università della Calabria mi sono permesso di integrare la sua ammissione aggiungendo che la ragione di quei buchi è che si è trovato contro un articolo di un Trattato di pace. Calia ha annuito. Veda, negli archivi internazionali, e in particolare in quelli britannici, c’è una documentazione sterminata sull’ostilità, per usare una parola leggera, di interessi stranieri nei confronti di Mattei. Ma la magistratura avrebbe potuto scrivere nel registro degli indagati, per esempio, premier e ministri dell’energia dei vari governi inglesi o francesi?

L’Italia ha vissuto ingerenze internazionali anche derivanti dalla condizione di paese sconfitto dalla guerra: come hanno inciso?
In modo profondo sul nostro sistema politico interno e sulla nostra politica estera, in particolare nell’area mediterranea. Avevamo vincoli internazionali molto rigidi e alcuni anche umilianti. Le nostre classi dirigenti del dopoguerra ne erano consapevoli. E tutte le volte che hanno tentato di aggirarli “furbescamente” o di superarli attraverso processi politici, sono sorti problemi molto seri, diciamo così. Forse Mussolini non avrebbe dovuto dichiarare guerra a mezzo mondo, sarebbe stato più saggio. Le classi dirigenti antifasciste hanno pagato per colpe di altri.

In quel ‘difetto di sovranità’ si può leggere in nuce la necessità adottiva, il confronto tra un fronte filo Usa e uno filo Urss che ha tenuto bloccata la democrazia italiana?
Senza alcun dubbio. Se l’Italia non avesse avuto un partito comunista con una forte componente filosovietica al proprio interno e una forte influenza sull’opinione pubblica italiana, se avessimo avuto una sinistra socialista, socialdemocratica o laburista egemone, gli Usa avrebbero favorito la nascita di un sistema democratico basato sull’alternanza alla guida del Paese tra uno schieramento conservatore e uno progressista. Ma questo vale per gli americani. Per francesi e inglesi, il “problema italiano” non era tanto il Pci, ma l’Italia: la sua posizione geografica nel cuore del Mediterraneo, e quindi la sua potenziale minaccia agli interessi petroliferi di Londra e Parigi.

Chi ha permesso alle Br di sequestrare e uccidere Aldo Moro?
A molti, in Italia e all’estero, faceva comodo che le Br esistessero, crescessero ed entro certi limiti potessero fare quello che avevano in mente di fare. Volevano sequestrare Moro, cioè lo stratega, per un lungo periodo, della politica interna ed estera dell’Italia, il “levantino” democristiano che voleva aggirare i vincoli internazionali? Prego, fate pure, ci aiutate a risolvere un problema.

Nelle sue ricostruzioni emerge qualche distrazione di troppo…
Settori degli apparati di sicurezza, della politica, dell’economia e dell’alta burocrazia dello Stato collegati con interessi stranieri “lasciarono fare”. Benché intercettato con largo anticipo dagli apparati di sicurezza italiana e da almeno sette intelligence di rango internazionale, come ha riferito il giudice Rosario Priore, non solo il sequestro non venne sventato, ma non si riuscì a trovare la prigione e a impedire che il leader democristiano fosse assassinato.

Mani Pulite è il momento in cui i magistrati, rottamando la politica, provarono a sostituirla. Si è indagato poco su quel periodo.
Penso che la storia di quel periodo debba essere ancora scritta. Ci sto lavorando con Mario Josè Cereghino e quello che sta emergendo dalle nostre ricerche conferma l’’idea di un attacco in grande stile alle classi dirigenti della Prima Repubblica e alle culture politiche popolari del Novecento. Sia chiaro, quel ceto politico offrì la testa al cappio perché fu incapace di autoriformare il sistema modellato durante la guerra fredda. Ma sul fatto che l’obiettivo della “rivoluzione” fosse la grande industria pubblica che nel secondo dopoguerra aveva contribuito a fare dell’Italia una delle potenze economiche mondiali, non c’è alcun dubbio. E non mi riferisco ai magistrati, che nella maggior parte dei casi facevano il loro mestiere, ma agli interessi interni e internazionali che misero il vento nelle vele di “Mani pulite”.

Otto anni fa aveva dichiarato, a proposito dell’insussistenza della Trattativa Stato-Mafia, che “Il generale Mori è stato neutralizzato perché indagava su Mafia-Appalti”. I fatti si sono incaricati di darle ragione. Perché certe teorie del complotto hanno così ampio successo?
Un ex direttore del Corriere della Sera propose alla Mondadori di pubblicare un libro sul punto di vista del generale Mori, criminalizzato dalla stampa per via delle inchieste in corso a Palermo, mentre il figlio di Vito Ciancimino furoreggiava con un suo volume in tutti i programmi di “approfondimento” televisivo. Chiesero a me e accettai subito: non solo perché ritenevo che fosse giusto concedere anche a Mori la possibilità di dire la sua, ma soprattutto perché ero curioso di conoscere la sua storia: la storia di un servitore dello Stato che per qualche misteriosa ragione era finito in un vero e proprio tritacarne. Avevo già delle idee che mi ero fatto all’inizio dei Novanta, quando ero cronista parlamentare e quirinalista di Panorama, negli anni delle stragi mafiose, della rivoluzione di Mani pulite e del crollo della Prima Repubblica. Poi avevo avuto modo di approfondirle attraverso le conversazioni con Giovanni Pellegrino, il giudice Rosario Priore e molti altri depositari di conoscenze sul “doppiofondo melmoso” della Prima Repubblica, come lo definì Luciano Violante. Cioè, l’apparato del potere occulto costruito in Italia nell’immediato dopoguerra dai servizi americani, inglesi e francesi, di cui la mafia e la Sicilia erano dei pilastri.

Fino a un certo tornante della storia…
Dopo la caduta del Muro, finita la guerra fredda, quell’apparato non si sentiva più protetto. E quando conobbi il generale Mori, leggendo le carte, ormai di dominio pubblico su “mafia e appalti”, raccolte dai suoi uomini per Giovanni Falcone, mi convinsi che quella zona grigia del potere doveva sentirsi minacciata dalle indagini dei Carabinieri. Non so dire se Mori e i suoi uomini ne fossero consapevoli sino in fondo, ma confrontando il loro lavoro con le informazioni che avevo pubblicato in libri precedenti o su Panorama, mi resi conto che con “mafia e appalti” probabilmente erano stati toccati fili sensibilissimi.

E perché le teorie complottiste trovano così largo successo?
Nascono e si affermano per i motivi più svariati. Per una scarsa conoscenza della storia, per esempio. Ma anche, il più delle volte, come reazione all’incapacità (impossibilità) della magistratura e della storiografia di fornire ricostruzioni attendibili e, per quanto è possibile, complete dei fatti, con la loro contestualizzazione e la loro interpretazione.

La magistratura potrebbe aiutare la ricerca storica nella ricostruzione delle verità nascoste, ad esempio rendendo consultabili tutti gli atti di inchiesta dopo la conclusione dell’ultimo grado di giudizio?
Certamente, le inchieste giunte all’ultimo grado del giudizio possono aiutare la ricostruzione storica. Ma sono solo una fonte, non la storia, che deve avvalersi invece di tutte le fonti disponibili. In Italia, purtroppo, spesso si tende a trasformare in storia definitiva addirittura un’indagine preliminare.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.