Prosegue a ritmo serrato il macabro conteggio. Dall’inizio di questo 2023, 16 esseri umani, 16 persone, detenute e perciò affidate alla cura dello Stato, hanno deciso che è meno gravoso uccidersi che vivere in carcere. Toglie il fiato, pensarci. È ancora nell’aria l’eco di un tempo politico recente nel corso del quale buttare la chiave è stata la parola d’ordine di improvvisati pensatori del diritto e del processo. Ma, passato quel tempo, pensavamo che la nuova temperie culturale avrebbe finalmente messo a fuoco l’acuta tragicità del “tema dei temi”, provando almeno a ragionare seriamente su come ricucire la ferita che il carcere italiano infligge ogni giorno da decenni alla Carta Costituzionale.

Siamo i primi a ritenere che il carcere rappresenti talvolta la risposta istituzionale alle esigenze di tutela della collettività, ma viene da chiedersi se la deriva che negli ultimi tempi ha contraddistinto la gestione delle strutture penitenziarie non esprima la completa sconfitta di quel principio costituzionale scolpito nell’art 27 che ormai sembra dimenticato. Si sta sempre lì a salmodiare sulla necessità di contenere il sovraffollamento, di fare prevenzione, di rendere più dignitosa la disgraziata esistenza di chi, talvolta suo malgrado, con questa terribile esperienza ha avuto in sorte di confrontarsi. È come se, nell’idea collettiva, ci fosse ancora tempo per parlarsi addosso, senza avere ben chiaro di cosa si stia effettivamente discutendo, non solo nelle prospettive tecniche che una discussione di questo tipo inevitabilmente comporta, ma pure negli aspetti più semplicemente umani.

In questo tempo sospeso viviamo noi, avvocati penalisti, che con la sofferenza di questi luoghi si confrontano ogni santa mattina, assorbendo il dolore di chi sta dentro una cella ma pure di chi, stando fuori, è comunque detenuto: i figli, le mogli, i mariti, le madri, i padri, i fratelli, le sorelle di questi ultimi della terra. Ma è solo per questo peso sul cuore che la Camera Penale di Roma, al congresso UCPI di Pescara, ha reiterato ancora una volta una mozione che impegna la Giunta dell’Unione a operare perché tornino nell’agenda politica quei provvedimenti di clemenza che il disastro delle carceri italiane impone. Amnistia e indulto sono un impegno indifferibile. Ed è per lo stesso motivo che vorremmo restasse sempre acceso il riflettore su quel ganglio giurisdizionale deputato al funzionamento dell’esecuzione penale che è la Giurisdizione di Sorveglianza e che invece, nel nostro Distretto, è letteralmente al collasso.

A nulla sono valse le astensioni, le proteste e le plurime interlocuzioni tentate con la locale magistratura di sorveglianza per provare a garantire alla pena la sua finalità rieducativa, mentre occorre tristemente prendere atto che una delicata materia quale quella dell’esecuzione penale venga relegata ai margini della giurisdizione, trascurata in termini di risorse e resa ancora meno accessibile attraverso scelte sconsiderate che precludono al difensore qualsiasi tipo di attività in grado di agevolare la decisione del Magistrato o del Tribunale di Sorveglianza. Sappiamo delle carenze di risorse anche umane in cui il Tribunale di Sorveglianza naviga, ma questo non ci allevia quel peso sul cuore, tanto più nei casi in cui, nelle pieghe di quei deficit, si annidano sicuri alibi per l’insipienza; e, ahinoi, ne abbiamo quotidiana prova.

Abbiamo indetto ancora un’assemblea dei soci per il 3 maggio e discuteremo su altre iniziative che alimentino la riflessione su una nuova idea della esecuzione penale e releghino il carcere al ruolo di parte del tutto; una parte, auspichiamo, sempre meno rilevante. Discuteremo del Tribunale di Sorveglianza e della necessità che qualcuno riesca a farlo funzionare. Ma non è più il tempo di approcciare la questione come fosse materia per iniziati: è fuori dalle aule e dai convegni che occorre parlare del carcere, di cosa sia, di cosa dovrebbe essere. È fuori dalle aule che occorre far capire alla collettività che quelli dentro sono esseri umani, tali e quali a noi, con il loro carico di sciagura e molta meno fortuna e che, anche quando hanno sbagliato, non meritano il degrado in cui li abbiamo costretti. Serve un sussulto di coscienza, uno scatto di reni. Non ci sarà forse, nemmeno stavolta. Ma noi continueremo a chiederlo in ogni modo che ci sia consentito. Non siamo noi a girare il chiavistello alla sera serrando le sbarre, ma quel peso sul cuore ci rende questa storia così gravosa che a volte ce ne dimentichiamo.

Giuseppe Belcastro, Cesare Gai

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