Come un cane randagio…
“A volte la sera vado a dormire chiedendomi se mia figlia è viva, e dov’è, se soffre, se sta male… o se il suo corpo è abbandonato in una roggia, alla mercé della pioggia. Come un cane randagio”.

Il 3 ottobre del 2013 – ormai dieci anni fa – naufragava a pochi metri dalle coste dell’isola di Lampedusa un’imbarcazione carica di migranti eritrei. I morti contati furono 368 ai quali vanno aggiunti molti dispersi. Pochi giorni dopo, l’11 ottobre, un altro naufragio nello specchio di mare tra l’Italia e Malta: circa 300 siriani, 300 uomini e donne rimasti senza nome. In termini di numeri ancora più sconvolgente il naufragio del 18 aprile 2015 di un barcone con più di mille persone nel Canale di Sicilia, la maggior parte delle quali bloccate nella stiva.

Il Governo Italiano di Matteo Renzi decise di mandare la Marina Militare a recuperare in fondo al mare quel barcone e lo straordinario lavoro dei nostri militari consentì di riportare a terra molti quei corpi e di cominciare le operazioni di ricomposizione dei corpi, la loro identificazione e una loro degna sepoltura. Perché anche chi muore in mare non è solo un numero, una statistica ma una persona, una storia, qualcuno con una famiglia, un padre, una madre, un fratello, una moglie che non vedendolo arrivare si domandano se sia ancora vivo o se sia morto, se sia in viaggio o se giaccia abbandonato da qualche parte. Come un cane randagio, appunto. Poter piangere sulla tomba dei propri cari, portare loro un fiore, per chi crede pregare sul loro sepolcro è da migliaia di anni un bisogno fondamentale degli esseri umani, il segno di un sentimento che ci lega tutti, i vivi e i morti. Dare un nome ad un corpo è il primo passo per riconoscere la fondamentale dignità di ogni uomo, che non è solo una cosa, un oggetto, uno strumento da usare e da gettare quando non serve più ma un essere prezioso con una propria storia, diritti, sentimenti.

Il libro “Naufraghi senza volto” di Cristina Cattaneo, direttrice di LABANOF il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense di Milano, è la storia di questa impresa quasi titanica di dare un nome a tutti questi naufraghi, di ricostruirne l’identità, di rintracciare i loro parenti.

Una storia raccontata con passione ma senza retorica, ricca di dettagli anche sulle procedure che è stato necessario stabilire: non esisteva infatti un sistema unitario sul piano nazionale e tantomeno internazionale per tenere traccia delle persone scomparse (non solo dei migranti ma anche di coloro che spariscono nelle nostre città e sono centinaia ogni anno), cercare dei collegamenti con i corpi ritrovati, i riscontri, i riconoscimenti. È una storia di cui come italiani dobbiamo andare orgogliosi e che mostra la qualità umana e culturale di tanti nostri connazionali e delle nostre istituzioni, della loro capacità di collaborare sinergicamente incrociando competenze, mezzi, risorse finanziarie proprio nel momento in cui la barbarie becera di tanta propaganda politica che punta le sue carte sulla strumentalizzazione della questione migratoria ci farebbe dubitare del nostro livello di civiltà.

Di sicuro non è stato un lavoro facile. Cristina Cattaneo, che ha organizzato personalmente il lavoro di identificazione, dà queste istruzioni ai Vigili del fuoco che entrano nel barcone per estrarre i corpi: “Vi troverete probabilmente di fronte a cadaveri decomposti in disfacimento, con alcune parti letteralmente staccate – la testa, le braccia, le gambe. Siccome la commistione di questi resti – eventualità che renderebbe tutto più difficile – è il nostro rischio più grosso, dovete assicurarvi che tutto ciò che mettete in un sacco come “unica persona” sia in qualche modo anatomicamente collegato anche solo da un lembo di pelle marcescente”. Un lavoro terribile ed è evidente che la comprensibile repulsione poteva essere superata solo dalla consapevolezza dell’estrema nobiltà e pietas del gesto che si apprestavano a compiere. Poco a poco il barcone restituisce non solo i corpi ma le loro storie, bambini ancora abbracciati alle madri, una pagella cucita nei vestiti, fotografie di persone care, ferite subite nei lager libici, denti spezzati dalle percosse inflitte dai mercanti di uomini durante la traversata del deserto, piccoli mucchietti di terra del paese da cui si parte per non tornare più. Molti sono i racconti che abbiamo ascoltato dai sopravvissuti ma la vera angoscia e l’orrore del viaggio la possono raccontare solo i morti.

“Il Barcone rappresentava cosa succedeva dietro l’angolo di quell’Europa e dei rispettivi parlamenti che si dichiarano i più civili, democratici e liberali: adolescenti e giovani morti, stipati su imbarcazioni che nulla hanno di diverso dalle antiche navi negriere per scappare dalla guerra, dalla persecuzione o dalla fame.” Con il suo carico di resti è un impareggiabile simbolo delle violazioni dei diritti umani e del più grande disastro correlato alle migrazioni umanitarie di questo secolo. Testimonia anche il ruolo dell’Italia, unica in tutta Europa, nel restituire loro dignità e nel rispettare i diritti di coloro che reclamano figli, genitori e fratelli deceduti in questa tragedia.

Un libro importante, dunque, almeno per tutti coloro che non si rassegnano semplicemente a girare da un’altra parte la testa. Un libro che parla di morti e che ci spiega cosa ci serve per restare vivi e umani.