Sono possibili nuove e diverse forme di collaborazione tra autorità giudiziaria, istituzioni penitenziarie, servizi sociali per avviare percorsi rieducativi e di effettivo reinserimento sociale; ogni persona ha diritto alla speranza. È quanto ha affermato Margherita Cassano, primo presidente della Corte di Cassazione in un convegno tenutosi a Firenze all’inizio di questa estate. Parole rafforzate da un’altra sua dichiarazione: “La restrizione della libertà personale mediante la custodia in carcere deve costituire l’extrema ratio”. Parole tanto importanti quanto lontane – e proprio per questo io credo rilasciate pubblicamente – dalla realtà conosciuta da chi ha a che fare con l’esecuzione penale nel nostro Paese.

Un Paese dove poco (o nulla) si discute e poco (o nulla) si riflette su come vengono spesi i soldi dei cittadini per assicurare a tutti il servizio “giustizia”, missione che forse più di altre è a fondamento di uno Stato che voglia definirsi di diritto. Il budget del ministero per il 2023 prevede un costo totale di 9 miliardi e 374 milioni di euro così ripartiti: il 58,7% per la giustizia civile e penale, il 33,9% per l’amministrazione penitenziaria, solo il 2,9% per la giustizia minorile e di comunità, il 4,5% per tutte le altre voci di gestione amministrativa. Stride quanto poco sia previsto per le pene e misure alternative. Appena 280 milioni compresi gli stanziamenti per la giustizia minorile. Se pensiamo allo stato della giustizia civile e penale in Italia – con milioni di cause pendenti e con la loro irragionevole durata che ci vede costantemente condannati in sede europea – è scandaloso quanto poco viene destinato a tale missione soprattutto se paragonato al rilevante budget dell’amministrazione penitenziaria. E questo al netto delle riforme che dovrebbero essere fatte e che, anzi, sono necessarie.

Si dirà che questa distribuzione di risorse offra comunque più sicurezza ai cittadini. Tutte le statistiche ci dicono, invece, che le carceri producono tra il 70 e l’80 per cento di recidiva. Chi visita e conosce gli istituti penitenziari sa che non potrebbe che essere così considerato che la permanenza nelle patrie galere rarissimamente offre seri percorsi di recupero verso il reinserimento sociale. Diversa è la prospettiva per coloro che riescono ad accedere alle misure alternative al carcere: qui la recidiva si abbassa notevolmente. Anche se non esistono studi sistematici, dai dati forniti dagli Uffici per l’esecuzione penale esterna è indicativo quello della revoca della misura per commissione di reato: siamo sotto all’1%.

I soggetti interessati all’area dell’esecuzione penale sono 57.520 persone detenute (al 30/06/23) e 80.136 persone in carico agli UEPE tra misure alternative e di comunità (al 15/05/23). C’è poi l’esercito dei “liberi sospesi” – oltre 100mila persone con una condanna sotto i 4 anni con pena sospesa – che attende (spesso anni) che il magistrato di sorveglianza decida o la destinazione in carcere o la misura alternativa. Non vi sembra che sia giunto il momento di aumentare in modo significativo le risorse destinate all’amministrazione della giustizia civile e penale e di incentivare – a discapito del carcere – quanto viene destinato alle misure alternative e di comunità?

È chiaro che per far questo occorrerebbe diminuire sensibilmente la popolazione detenuta riservando il carcere a persone veramente pericolose e destinando risorse importanti alle pene e misure per il reinserimento sociale avvalendosi sempre di più del patrimonio costituito dal privato sociale. Quando finisce la pena in carcere, inizia l’altra pena, durissima, di provare a ritrovare un posto nella società con il peso dello stigma di essere stato un detenuto. Il “trattamento” ricevuto in carcere in genere ha acuito i problemi soprattutto per i consumatori problematici di droga, per chi ha problemi psichiatrici o semplicemente comportamentali, per chi è straniero o povero, per chi deve rientrare in famiglie disagiate che non hanno trovato alcun sostegno da parte delle istituzioni locali o per chi una famiglia che ti possa accogliere non ce l’ha più.

Ci sono anche norme mai attuate, per esempio quelle che nell’ordinamento penitenziario prevedono l’istituzione dei Consigli di Aiuto Sociale (dall’art. 74 all’art. 78), mai creati dal 1975 mentre dovrebbero essere attivi presso il capoluogo di ciascun circondario di tribunale. Eppure, i Cas hanno per legge la specifica finalità del reinserimento sociale. Spesso persino lo Stato vacilla quanto a rispetto delle regole in vigore. Si pensi alla condanna nel 2013 (sentenza Torreggiani) per violazione sistematica e strutturale dell’art. 3 della Convenzione Edu, cioè per trattamenti inumani e degradanti. È l’ora che lo Stato inizi un percorso di “rieducazione” per reinserirsi nel mondo dello “Stato di diritto”, è l’ora della riparazione e della riconciliazione e ciò può avvenire solo se ognuno di noi decide di fare la sua parte in un percorso complesso che richiede dedizione e amore.