Se uno nasce in posto dal nome impronunciabile come Székesfehérvàr, difficilmente avrà una vita banale. Viktor Mihàly Orbàn, primo ministro ungherese ne è la prova perché viene da quella città. Come classificare lui e il suo governo? Di destra? Di estrema destra nazionalista?

Orbàn è nato sette anni dopo la repressione dei carri armati russi a Budapest nell’ottobre del 1956. La ferita non era ancora rimarginata, le purghe continuavano: che tipo di adolescente era l’attuale premier oggi sessantenne e appesantito dal gulasch? Si potrebbe dire che la forma del governo ungherese oggi costituisca una terza nuova forma nella gamma tra democrazia liberale come (dovrebbe essere) la nostra e una autocrazia come quella putiniana.

Esempio pratico: martedì scorso migliaia di ungheresi hanno manifestato liberamente contro Orbàn e il suo governo per un caso di corruzione venuto a galla grazie a una registrazione diffusa da Peter Magyar, un ex funzionario. L’Ungheria è scesa in piazza contro Orbàn e lo ha fatto liberamente: la polizia non si è certo comportata come quella di Mosca. Non entriamo nel merito del caso sollevato da Magyar ma, reduci dai fasti della democrazia putiniana che alterna minacce nucleari alla repressione di oppositori come Alexey Navalny, possiamo prendere atto della differenza.

Anche la Polonia è stata considerata dalle sinistre europee un Paese perduto in una deriva reazionaria irreversibile di estrema destra bigotta e militarista, ma sono bastate le normali e libere elezioni per mandare a casa un governo logoro e detestato, e vederne salire un altro in linea con i parametri europei. In Italia non sempre si trova lo spazio necessario per procurare una riflessione sulle differenze.

E poiché Orbàn è adorato in Italia da Matteo Salvini e in modo diverso anche da Giorgia Meloni, da noi si fa tutto un pacco e si applica la logica della tifoseria. Così si perde il gusto della differenza. Un esempio di qualche settimana fa: Giorgia Meloni è andata a Budapest per convincere Orbàn a non opporsi col veto all’ingresso della Svezia dalla Nato – cosa che non piace affatto a Salvini – e Viktor si è lasciato convincere.

E la Svezia è nella Nato, cosa che i cittadini svedesi dopo secoli di neutralità assoluta, considerano oggi una necessaria assicurazione con cui dissuadere la Russia di Putin. È sulle prime pagine da noi il caso di Ilaria Salis, 39 anni, insegnante, la quale poco più d’un anno fa si mosse dall’Italia in Ungheria per fare a botte con un gruppo di ungheresi neonazisti. È stata arrestata e da 13 mesi si trova in un carcere di Budapest.

Che cosa sarebbe successo se una cittadina ungherese fosse venuta a Roma per picchiare degli italiani a lei sgraditi? Ilaria Salis è stata ieri per la seconda volta portata in aula di tribunale non soltanto ammanettata, ma con le catene ai piedi e una catena retta da una agente della polizia carceraria. La pratica delle manette e delle catene in tribunale varia da paese a paese e da reato a reato. Da noi si ricorda l’ex deputati democristiano Enzo Carra tradotti in catene nell’aula del tribunale. Tutti i detenuti per violenza politica, brigatisti rossi e neri, in Italia li ricordiamo ammanettati e poi, come si fa nei processi di mafia, messi in una gabbia con le sbarre di ferro.

Questo trattamento della Salis a Budapest, portata in aula con manette e catene, ha provocato una grande indignazione a sinistra che ha più o meno accusato il governo e i partiti che lo sostengono, di non aver fatto nulla per far evitare alla Salis un trattamento disumano e umiliante. Alla prigioniera sono stati per la seconda volta negati gli arresti domiciliari che avrebbero dovuto essere il primo passo per una successiva richiesta di scontare i domiciliari in Italia.

Il ministro Guardasigilli Nordio al quale i genitori della Salis si avevano chiesto aiuto, ha preso contatto con le autorità del ministero della Giustizia ungherese i cui funzionari hanno risposto che la Salis e i suoi avvocati si erano dimenticati di fare richiesta per i domiciliari. Quando l’imputata ha fatto la richiesta, gli è stata negata. Cosa peraltro prevedibile perché è improbabile che il chiasso politico italiano sul caso delle catene applicate ad una italiana andata in Ungheria per commettere atti di violenza, abbia giovato alla Salis.

E qui ci troviamo di nuovo alla questione centrale: come giudicare il regime di un governo che applica le catene e le manette e che pratica la politica delle porte chiuse all’immigrazione clandestina? Probabilmente noi italiani ci siamo molto irrigiditi sui nostri schemi. I centri di analisi politica di tutto il mondo, le università e i servizi esteri dei maggiori giornali, sono forse più attenti e più laici cercando di calcolare le conseguenze di una eventuale dell’ex Presidente americano Donald Trump, e quelle c h e fanno seguito in Russia al plebiscito senza oppositori del Presidente rieletto senza rivali.

Fra i due c’è più di una generica comunanza di interessi, oltre alla civetteria di apparire molto “pop”, come quando Trump ha pronunciato le fatali parole: “Dirò a Putin di prendersi i Paesi europei che non spendono per la loro difesa e di farne quel che c… gli pare” (e Putin opportunamente ha commentato prendendo le distanze: “Preferisco Biden che capisce realmente la politica”). Ma negli Stati Uniti la paura di una vittoria di Trump rende insonni i costituzionalisti, che non sono soltanto degli studiosi ma un partito a sé, perché la posta in gioco è la democrazia. Che tipo di democrazia? E quali sono i limiti entro i quali una democrazia può essere considerata tale malgrado palesi restrizioni di alcune libertà, come quella di stampa e di manifestare? La risposta più convincente è che una democrazia è tale finché un tipo di governo è reversibile attraverso le elezioni, come è da poco accaduto in Polonia e in Portogallo.

La domanda successiva è: il regime di Viktor Orbàn potrebbe essere rovesciato da una normale tornata elettorale? Non lo sapremo se non quando ci saranno le elezioni in Ungheria, ma a vantaggio di Orbàn conta il fatto che è già stato primo ministro agli inizi del secolo; poi ha perso e poi ha rivinto. Donald Trump non fa mistero della sua ammirazione per Viktor Orbàn, molta di più che per Putin, che Trump non ama realmente, perché Orban ha finora garantito il confine che separa una democrazia conservatrice da una autoritaria irreversibile. Ma ciò non basta per rassicurare nessuno. L’Occidente è pieno di impalcature per lavori in corso e per segnalate voragini.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.