Ci sono degli inconvenienti a essere “l’uomo più potente del mondo”: se una cosa non funziona, diventa difficile dare la colpa a qualcun altro. Va bene, ammesso che un Presidente degli Stati Uniti possa ancora oggi essere considerato l’uomo più potente del globo, rimane il fatto che quasi tutti i media avevano criticato Merrick Garland, il Ministro della Giustizia di Biden, per aver cercato di ottenere la condanna a morte per un giovane terrorista ceceno (vedi Riformista 25 giugno). Le critiche erano più che giustificate: Biden, e la sua vice Harris, in campagna elettorale avevano entrambi fatto promesse molto “garantiste”. Biden non ha preso la parola su questo incidente, ha incaricato un portavoce di fare riferimento a una non meglio precisata “autonomia” del Ministro Garland, e ha aspettato qualche giorno che le polemiche si smorzassero.

Una settimana dopo, probabilmente certi di aver trovato il momento opportuno, la congregazione ebraica Dor Hadash ha scritto a Garland, ebreo anche lui: «Non vogliamo che il governo chieda la pena di morte contro un suprematista bianco che nel 2018 ha ucciso 11 fedeli nella nostra sinagoga di Pittsburgh». È passata un’altra settimana, e Garland, evidentemente questa volta non “in autonomia” da Biden, ha disposto che non vengano chieste altre condanne a morte fino a quando alcuni aspetti delle leggi in materia non saranno riesaminati. Sui media non americani tutti hanno titolato che si trattava di una moratoria. In realtà è una “quasi moratoria”.

Garland infatti ha sospeso non l’intero meccanismo della pena di morte federale, ma solo le modifiche che a questo meccanismo sono state apportate sotto l’amministrazione Trump, che come è noto, con l’avvicinarsi delle elezioni, voleva dare prova di “durezza” e ha modificato alcuni regolamenti per aggirare alcune questioni di metodo (per le esecuzioni) poste da giudici federali. Il portavoce della Casa Bianca, Andrew Bates, ha fatto eco: «Il Presidente Biden approva l’iniziativa del Procuratore Generale. Egli nutre notevoli preoccupazioni sulla pena di morte e su come viene applicata, e crede che il Dipartimento di Giustizia dovrebbe tornare alla sua precedente prassi di non compiere esecuzioni». Questo è il problema: “la precedente prassi di non compiere esecuzioni” è stata la strategia degli ultimi presidenti, tra cui il conservatore George W. Bush e il progressista Barak Obama, di lasciare tutto fermo, limitandosi a evitare che nuove esecuzioni venissero messe in calendario. Poi è arrivato Trump, e ci ha messo poco a far saltare una strategia basata solo sul far finta di nulla.

E infatti, gli avversari della pena di morte sono preoccupati: se Biden non va oltre, per il prossimo presidente “durista” sarebbe questione di poche ore ricominciare con le esecuzioni. Vogliono che Biden commuti tutte le condanne a morte federali in altrettanti ergastoli. Dopo una commutazione, in base all’ovvio principio che una legge può essere retroattiva se migliora le condizioni di un reo, ma non può esserlo se le peggiora, perché un nuovo presidente potesse far compiere altre esecuzioni servirebbe prima cambiare di nuovo la legge, poi celebrare nuovi processi, ottenere nuove condanne a morte, attendere il lungo iter dei ricorsi… insomma, dopo le commutazioni servirebbero molti anni per una eventuale nuova esecuzione.

Ma se fino a ora tutti i “garantisti” si sono dichiarati largamente insoddisfatti, è anche vero che tutti confidano in una evoluzione. Robert Dunham, Direttore del Death Penalty Information Center, ha notato: «Se la revisione che farà il Dipartimento è così limitata come suggerisce il memorandum – cioè, affronta solo le cose che l’amministrazione Trump ha fatto per accelerare le esecuzioni – a malapena scalfisce la superficie della riforma della pena di morte. In poche parole, se l’amministrazione non abroga o commuta, non sta prendendo provvedimenti per porre fine alla pena di morte federale. Biden non sta adempiendo all’impegno della campagna elettorale».

La ONG Witness to Innocence ha twittato che l’azione del Dipartimento di Giustizia è un «passo nella giusta direzione, ma non abbastanza. Biden può e deve commutare le condanne a morte». Suor Helen Prejean, una delle più note attiviste statunitensi contro la pena di morte, che è stata anche Presidente di Nessuno tocchi Caino, ha commentato: «Mentre una moratoria sulle esecuzioni federali ha un valore simbolico, abbiamo visto il pericolo di mezze misure che non affrontano completamente la fondamentale fragilità del nostro sistema di pena di morte. È necessario di più».