È tutto un problema di fixing: quello che nei dizionari è definito come la quotazione ufficiale in un certo momento di metalli preziosi e valute. Per la politica italiana il momento del fixing si chiama elezioni. E lì che si definisce la quotazione dei partiti. Certo di metalli preziosi, in giro, non se ne vedono tanti, ma la logica è sostanzialmente la stessa. Fuor di metafora, i venti di crisi, scatenati ufficialmente dalle rivendicazioni del presidente Conte a nome dei 5Stelle (ma il tema interessa tutti i partiti), hanno solo una logica: il fixing elettorale.

Come conviene arrivare alle elezioni per il Movimento? Quale posizionamento può essere più o meno vantaggioso per arginare la crisi di consenso? Un ragionamento cinico e spregiudicato, si dirà. E infatti quella spregiudicatezza viene contestata da chi denunzia la responsabilità di una crisi al buio in un momento di grande emergenza, alla vigilia della sessione di bilancio che dovrà fronteggiare la crisi economica più grave degli ultimi anni. Ma per quanto cinico e spregiudicato è un ragionamento figlio di come funziona questo sistema politico. La legislatura che si sta consumando ha dimostrato, con buona pace della legge elettorale, che nella nostra politica i partiti hanno un unico, vero, incentivo: massimizzare il proprio consenso. Beh, si dirà, non è quello cui mirano tutti i partiti al mondo? Dov’è la notizia?

La notizia è che negli altri paesi, almeno quelli che funzionano un po’ meglio, la massimizzazione del consenso è, in qualche modo, legata alla performance di governo. Se convinco gli elettori di aver governato bene, vengo premiato e magari confermato, se convinco gli elettori di poter governare meglio di chi ha governato, vengo premiato e sostituisco chi c’era prima. Non sempre avviene esattamente così, anche nelle grandi democrazie, ma quel che certo è che i partiti vengono votati soprattutto perché si sa come hanno governato o si è ragionevolmente certi di come governeranno. Perché tendenzialmente avranno il tempo per farlo (stabilità) e rimarranno più o meno fedeli alle proprie promesse elettorali. In Italia non funziona così. Innanzitutto perché nessun partito può aspirare ad ottenere da solo la maggioranza per governare, in secondo luogo perché gli eventuali schieramenti (le coalizioni di partiti) se anche si creano e magari vincono le elezioni (talvolta nemmeno quello), si dissolvono in breve tempo. E, infine, perché a fine legislatura ci si ritrova con due, tre governi alle spalle, con due, tre maggioranze diverse che li hanno sostenuti. Valutare i governi è per definizione impossibile. L’unica cosa che si può valutare sono i partiti e le loro varie peripezie di legislatura.

Se le elezioni non servono a scegliere i governi e, quand’anche ci riuscissero (cosa rarissima) non assicurano che quei governi durino e che li si possa giudicare, che cosa rimane? Rimane il fixing. Io scelgo il partito (o il partito cerca di farsi scegliere da me) non per quello che promette di fare (gli elettori sanno bene che non sarà in condizioni di farlo), ma per quello che è, per l’identità che esibisce, per il fascino che suscita, per quanto assomiglia a quell’insondabile complesso di sensazioni, convinzioni e pulsioni, che animano il suo elettore. La scelta elettorale determina la quotazione del partito e a quel punto sarà il partito a utilizzarla per costruire alleanze o per cercare di impedirle, esercitando il potere di interdizione o veto. Tutte cose che sfuggono al controllo degli elettori. Se il problema è il fixing del partito e non la sua lealtà a un’alleanza (perché nulla assicura che duri) o a un progetto di governo (perché i governi cambiano e i partiti restano) allora le scelte politiche sono solo una questione di calcolo soggettivo del singolo partito. Non c’è nessuna fedeltà se non a se stessi.

E ritorniamo alla domanda iniziale: quale posizionamento assicura di massimizzare il proprio consenso elettorale per poterlo poi spendere nella giostra della legislatura? È questo, crediamo, il tormento dei 5stelle in queste ore, soprattutto per un movimento il cui consenso continua a declinare inesorabilmente da quando ottenne la fiducia di un elettore su tre. “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente” diceva Nanni Moretti nell’ormai classico Ecce Bombo. Ci si può anche scandalizzare, inveire contro il cinismo, la spregiudicatezza e l’avventura, ritenere che il calcolo sia sbagliato e che restando (venendo, per parafrasare Moretti) al governo si abbiano in realtà più chances di massimizzare il consenso di quante non se ne abbiano scegliendo l’opposizione e cercando di rinsaldare le fila dell’identità delle origini. Cosa effettivamente piuttosto complicata nel caso specifico. Ma una cosa è certa.

Fin quando le cose funzioneranno così, e l’unica ragione sociale dei partiti sarà solo quella di massimizzare le proprie quotazioni elettorali, perché tutto il resto è incerto e “si vedrà”… fin quando sopravvivere sarà l’unica ambizione che ha una qualche possibilità di successo nel sistema dato, finché il sistema istituzionale funzionerà in modo tale che l’opporsi per sopravvivere sarà equivalente al governare per sopravvivere… quel comportamento cinico e spregiudicato continuerà a essere una tentazione fortissima. Un calcolo sbagliato, probabilmente, ma pur sempre un calcolo che rispecchia la logica di come vanno le cose. A meno che non si decida di cambiare.