Giuseppe Conte prova a scaricare la crisi di governo su Mario Draghi. Il presidente del Consiglio compie nel tardo pomeriggio, a borse rigorosamente chiuse, l’atto dovuto delle dimissioni. E il presidente della Repubblica, ricevuto il premier, respinge le dimissioni – Draghi in fondo non è stato sfiduciato – e lo rinvia alle Camere “per valutare la situazione”. Il giorno sarà mercoledì. La crisi torna così in Parlamento, dove deve essere gestita, e il presidente della Repubblica torna (finalmente) arbitro della scena. Soprattutto questa pazza e assurda crisi di governo di mezza estate torna nel suo ambito istituzionale: le Camere e il Quirinale.

Alla fine di 72 ore pazzesche, il Papeete – il bagno della riviera romagnola dove Salvini nell’agosto 2019 pianificò la prima crisi di governo di questa folle legislatura – che Giuseppe Conte ha cercato di rovesciare su Mario Draghi, torna con il passaggio quirinalizio a essere il Papeete di Conte e del Movimento 5 Stelle. Mercoledì avremo la verità sulla tenuta di questa maggioranza Draghi. “Il giorno della verità” dicono dalla maggioranza. I 5 Stelle sono nell’angolo: non potendo più, ieri, dire che aprivano una crisi di governo perché non vogliono il termovalorizzatore a Roma sommersa dai rifiuti, hanno sparato per tutto il giorno contro le politiche economiche dell’esecutivo Draghi. Un’abiura totale delle scelte fatte in questi diciassette mesi. Che ha conosciuto l’apoteosi ieri durante gli interventi in aula dei grillini e poi nel pomeriggio quando verso le 15 anche il garante Beppe Grillo ha avallato la crisi di governo: “È giusto lo strappo, la base del Movimento e i nostri parlamentari sono insofferenti”.

Anche il sociologo del Movimento Domenico De Masi ieri pomeriggio ha calato la maschera: «Giuseppe Conte e Alessandro Di Battista possono gestire insieme, stando all’opposizione, un consenso politico tra il 12 il 15%. Craxi, con molto meno, è stato l’arbitro della politica italiana». Al di là del paragone forse non troppo gradito ai “puristi” del Movimento, ieri sono state evidenti le reali intenzioni di Conte e degli stellati: andare all’opposizione, strappare, andare a votare ma anche continuare la legislatura potendo però sparare ogni giorno addosso al governo, assai preferibile per chi non rinuncerebbe volentieri alle indennità mensili che si aggirano sui 14 mila euro. Luigi Di Maio, che tre settimane fa ha salutato con il suo gruppo la fu casa madre, lo ripete da tempo e lo ha fatto anche ieri mattina: «Conte ha sempre panificato il logoramento del governo Draghi. Da sempre ha in mente solo di portare il Movimento all’opposizione per ritentare poi la scalata a palazzo Chigi». Un altro nome importante di Insieme per il Futuro ieri alla Camera ricordava di come «Conte, nel dicembre scorso, ai tempi della legge di bilancio, ci diceva che dovevamo presentare 2500 emendamenti per far ballare Draghi…».

Una giornata surreale. Una delle tante, ormai. Segnata da evidenti paradossi. Alcuni assai “qualificanti” della situazione. Ad esempio il tentativo ieri mattina del ministro 5 Stelle Federico D’Incà che ha cercato in ogni modo di convincere Draghi a non mettere la fiducia sul decreto Aiuti. Tentativo fallito e che dice tutto sui tre ministri 5 Stelle che non votano il provvedimento del loro stesso governo ma non si dimettono. «Se volete aprire una crisi di governo, la prima cosa che dovete fare è dimettervi e non, caro D’Incà, annunciare a nome del governo il voto di fiducia che lei non voterà», gli ha detto in aula il leader di Italia viva Matteo Renzi. Altre perle di giornata. Alle 18 e 15 mentre Mario Draghi convoca quello che forse sarà l’ultimo Consiglio dei ministri del suo governo, la capogruppo 5 Stelle al Senato Maria Castellone è ancora lì che spiega che “il Movimento voterà la fiducia al governo Draghi se andrà a chiederla alle Camere”. Peccato che nei suoi interventi in mattinata al Senato aveva letteralmente demolito tutte le politiche economiche del governo di cui ha fatto parte.

Negli stessi minuti anche Giuseppe Conte, uscendo dall’abitazione di via Fontanella Borghese, continuava a mettere i puntini sulle “I”: “Perché noi vogliamo risposte concrete a fatti specifici, perché ni stiamo dalle parte dei cittadini… ”. I ministri 5 Stelle – D’Incà. Patuanelli, Dadone – ripetono che non si dimetteranno e che anzi “voteremo la fiducia al governo Draghi quando tornerà alle Camere”. E infatti D’Incà alle 18 e 10 entra con passo felpato dal portone principale di palazzo Chigi per andare al Consiglio dei ministri. Non s’aspetta che Draghi stia per fare quello che poi farà. Ovverosia dire parole definitive: dimissioni perché non ci sono più le condizioni di unità, fiducia e compattezza per proseguire nell’azione di governo, di un governo che fa e non di uno che intende vivacchiare. Il comunicato di palazzo Chigi va letto parola dopo parola perché leva ogni dubbio e, soprattutto, spazio agli speculatori.

A chi in queste ore – e ce ne sono parecchi – sta cercando di trasformare il “Papeete” di Giuseppe Conte (il suicidio politico del capo politico dei 5 Stelle) nel Papeete di Mario Draghi. «Tra poco salirò al Quirinale – si legge – per rassegnare le mie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica. Le votazioni di oggi in Parlamento sono un fatto molto significativo da punto di vista politico. La maggioranza di unità nazionale che ha sostenuto questo governo dalla sua creazione non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione del governo. In questi giorni da parte mia c’è stato il massimo impegno per proseguire nel cammino comune. Com’è evidente dal dibattito e dal voto di oggi in Parlamento questo sforzo non è stato sufficiente. La compattezza che è stata fondamentale per affrontare le sfide di questi mesi è venuta meno. Non ci sono più le condizioni per andare avanti». Non sono concetti nuovi. Il presidente del Consiglio li ha ripetuti più volte in questi ultimi due mesi di tormentone 5 Stelle. Anche nella conferenza stampa di martedì era stato chiaro: «Non si può governare con gli ultimatum. Il governo vive finché lavora. Se non lavora, va a casa».

Poi i ringraziamenti, che non sono stati routinari. «Vi ringrazio per il vostro lavoro e i tanti risultati conseguiti. Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto in un momento così difficile nell’interesse di tutti gli italiani». Un comunicato che sembra definitivo. E getta nel panico – non tutti, qualcuno sembra contento – stampa e tv radunati in piazza Colonna davanti alla sede del governo. Il comunicato tace però di una postilla che il premier ha riservato ai margini della riunione ai ministri presenti e che chiedevano lumi sui prossimi passi. «Ora vado in Algeria (e con lui mezzo governo, ndr) per il vertice intergovernativo» previsto lunedì e martedì e fondamentale per chiudere partnership fondamentali soprattutto nell’ottica dei rifornimenti di gas. In pochi mesi il governo Draghi ha dimezzato la dipendenza dal gas russo e lo ha sostituito con forniture algerine. «Poi – ha continuato il premier dimissionario – potremmo vederci mercoledì in Parlamento per nuove comunicazioni alle Camere». Questo vuol dire che la crisi extraparlamentare (Draghi non è stato sfiduciato) proverà a trovare una soluzione in Parlamento. Con le comunicazioni del premier dimissionario ma nel pieno delle sue funzioni e successive votazioni.

Il Movimento è nudo. E Giuseppe Conte anche. La palla avvelenata è tornata appunto nella loro metà. Ieri sera Conte ha riunito il Consiglio nazionale. Possiamo scommettere che resterà riunito fino a mercoledì. Più o meno. Magari a distanza che il caldo è insopportabile in città. Si sono spinti troppo in avanti nel giocare con la fiducia e la non fiducia, nel dare la colpa al termovalorizzatore salvo poi sconfessare tutto quello che è stato fatto finora. Se Draghi mercoledì dovesse riavere la fiducia, il Movimento è costretto a stare all’opposizione. A quel punto però si potrebbe aprire lo scenario di una nuova scissione: i capigruppi Crippa e Castellone, gli stessi ministri, hanno invece già dichiarato il loro rinnovato voto di fiducia. È possibile a quel punto che lascino il Movimento. Per andare a casa di Luigi Di Maio. E tanti altri. «A quel punto – suggerisce un parlamentare di area grillina – il Movimento resterà quello dei fondamentalisti alla Di Battista e dei rancorosi alla Conte. O quello teorizzato ogni mattina su Il Fatto Quotidiano”. Un Movimento che avrebbe poco a che fare con quello che è stato al governo finora. Per Draghi potrebbe essere utile dire che il vero Movimento è quello di Luigi Di Maio. E non doversi rimangiare quel “mai un Draghi bis, mai un governo senza i 5 Stelle». Per non fasi mancare nulla, saranno altri cinque giorni di passione. Ma il governo è nel pieno delle sue funzioni. E il ministro economico Daniele Franco sta lavorando ad un nuovo decreto contro l’inflazione e il caro energia. Sarà pronto entro la fine del mese.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.