Il tafazzismo militante
Perché il centrosinistra litiga e il centrodestra no: la formazione a testuggine della maggioranza contro la sindrome masochista dell’opposizione
Le ragioni psicanalitiche, storiche e antropologiche dietro i comportamenti delle forze politiche
Domanda: come mai in una scena politica, qual è quella italiana, tradizionalmente vocata all’impianto di governo coalizionale anche quando il sistema diventa maggioritario e spinge per la reductio ad duos, il centrosinistra confligge al suo interno persino se è all’opposizione e il centrodestra no?
Attenzione: non che l’emisfero destro non litighi e non sommuova lotte intestine, ma tutto finisce, da sempre – salvo la storica frattura generata da Umberto Bossi trent’anni fa, quando scaricò Berlusconi – senza troppi danni, mentre l’emisfero sinistro, invece, sembra aver studiato politica sui testi di Leopold Von Sacher-Masoch. Quello da cui lo psichiatra R. Von Krafft-Ebing trasse ispirazione per coniare il termine che descrive la sindrome del “masochista”, in italiano “tafazzismo”. Che dire allora dell’eutanasia del “campo” evocato dalla Schlein come “largo”, capziosamente corretto come “giusto” da Conte e da lui stesso in un amen tramutato in “camposanto” con un cupio dissolvi così denso di passione da apparire addirittura lussurioso?
Perché la sinistra scoppia sempre?
Direbbe il dottore della psiche e delle emozioni che questo avviene quando il cesarismo che impera oggi nella politica nutrendosi di egolatria e facendosi egemone attraverso la cooptazione piuttosto che col merito, sopravanza l’interesse generale del partito e, come si diceva una volta, il bene comune del paese ripiegandosi sul sé e quello dei famigli. E ci potrebbe pure stare, per carità, ma resterebbe comunque la domanda: perché la sinistra scoppia sempre (ricordiamo con tenerezza il governo Prodi II) e la destra arriva sul punto di e poi si ricompone? Ragioni psicologiche, certo, in una politica deprivata di idealità e visioni generali, ma anche antropologiche, e storiche. La destra di governo nell’Italia democratica e repubblicana, a ben vedere, è un’invenzione recente che celebra quest’anno il suo terzo decennio di vita, generata, come diceva Monod, dal caso e dalla necessità e soprattutto dal geniale assemblaggio promosso da Silvio Berlusconi.
Il partito pigliatutto di Berlusconi
Prima esisteva il polo escluso dal “patto costituzionale” che aveva protagonisti i figli e nipoti di Salò, coperti dal poco capiente doppiopetto di Almirante. Pezzi di destra moderata e democratica si accomodavano invece sotto il simbolo del Pli, un glorioso partito di nicchia ed altri, più numerosi, venivano ospitati da quella madre generosa che era la Dc. Insomma per la Destra/Destra non c’era trippa per gatti: il ruolo di governo non era mai stato contendibile. Berlusconi fece il miracolo e portò un missino come Tatarella a fare il suo vicepresidente del Consiglio e il giovane segretario del Msi-Destra Nazionale Gianfranco Fini a fare più volte il ministro e poi lo condusse sullo scranno della terza carica dello Stato, come presidente della Camera. Berlusconi definiva la sua creatura Forza Italia una forza “liberale”: in realtà si trattava del classico “partito pigliatutto”, noto alla politologia del Novecento, dotato di grande duttilità ideologica, partito “personale” come lo battezzò lo studioso Calise, certamente, però, privo di debiti con la destra nostalgica.
La storia più recente è nota: Berlusconi andò al governo per quattro volte nella stagione dell’alternanza, portando con sé gli alleati della prim’ora ed esercitando ininterrottamente un’egemonia nel centrodestra fino al 2018, quando lo schema bipolare figlio della riforma elettorale del 1993 venne sconvolto con l’accordo dei populisti della Lega e dei Cinque Stelle. Nelle elezioni del 2022 il centrodestra ripeté lo storico schema a tre (Forza Italia, Lega, eredi del Msi) inventato nel 1994 da Berlusconi ma con ruoli invertiti tra la nuova destra meloniana e Forza Italia che si trovò nella posizione ancillare una volta riservata, appunto, alla destra/destra. Ecco, allora, che la figlia del polo escluso Giorgia Meloni si trova a svolgere l’inedito ruolo di protagonista assoluta come premier.
Il tafazzismo militante della sinistra
Ora, al netto di ogni giudizio di merito, non c’è dubbio che, nonostante la lunga militanza politica e la breve esperienza di governo (con Berlusconi IV, 2008) come ministra della gioventù, si tratti di una absolute beginner nella poltrona più importante di Palazzo Chigi e le posture assunte, soprattutto nel conflitto inutilmente manifesto con tutto ciò che non si allinea morbidamente al governo, anche le posizioni minori e minime, dall’influencer al politico battutista, lo dichiarano ampiamente. Allora l’imperativo categorico della coesione tra sodali di maggioranza, del chiudersi a testuggine di fronte alle minacce esterne, va letto anche con questa chiave: teniamoci stretti o perdiamo il governo. La sinistra, invece, che al governo non c’è, continua a nutrirsi di tafazzismo militante che, come sempre è accaduto, permarrebbe come nutrimento principe anche se un giorno, per qualche miracolo, al governo tornasse. Miracolo improbabile, peraltro, dati i presupposti bellicisti in pieno svolgimento.
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