La decima edizione del Processo di Aqaba si è tenuta a Roma ed ha visto l’Africa come protagonista. Questo appuntamento internazionale è nato nel 2015 su iniziativa di Re Abdullah II di Giordania che conosce bene la lotta al terrorismo islamico. L’obiettivo di questo summit è sempre stato quello di creare uno spazio di confronto tra vertici militari e dell’intelligence dei paesi del bacino del cosiddetto Mediterraneo allargato.

L’idea di fondo con cui nasce il Processo di Aqaba è che non sia sufficiente l’uso delle armi per combattere il terrorismo, ma che serva una strategia olistico-preventiva, che possa agire anche sulle radici ideologiche e sociali dell’estremismo. Questo meeting si basa su alcuni capisaldi come la prevenzione, il coordinamento operativo e l’implementazione della capacità di reazione delle singole nazioni. Il Processo di Aqaba ha un formato molto flessibile e adattabile a contesti regionali molto diversi e nel suo decimo anniversario ha deciso di concentrarsi sulla situazione africana. Il Sahel soprattutto, ma anche il Golfo di Guinea, la Somalia, il Congo ed il Mozambico hanno visto una crescente e concreta minaccia del jihadismo internazionale sia dello Stato Islamico che di al Qaeda, entrambi redivivi nel continente africano dopo le sconfitte patite in Medioriente. Stando ai dati delle Nazioni Unite, nel 2023 l’Africa ha registrato in media otto attacchi terroristici e 44 vittime al giorno, più del doppio rispetto alla media del quinquennio precedente.

Il Sahel da solo ha concentrato oltre la metà delle morti per terrorismo a livello globale, superando per la prima volta le 25.000 vittime complessive da conflitti armati, di cui quasi 5.000 attribuite direttamente ad azioni terroristiche. A Roma sono arrivati il presidente del Ciad Mahamat Deby, quello della Sierra Leone Julius Maada Bio, il togolese Faure Gnassingbè e soprattutto il presidente della Nigeria Bola Tinubu, autentico gigante regionale in prima linea nella lotta al terrorismo islamico.

Purtroppo erano assenti i regimi militari che ormai controllano quasi tutta la fascia saheliana: Mali, Burkina Faso e Guinea rispondono direttamente a Mosca che organizza le forze armate di queste tre nazioni nella lotta al fondamentalismo islamico, ma con risultati molto deludenti. Il Ciad ha invece ribadito la propria prima linea nel Sahel chiedendo un sostegno militare continuo; il Niger, guidato anch’esso da una giunta militare vicino alla Russia ha voluto essere presente per ribadire la sua centralità e confermando la preziosa presenza dei militari italiani, gli unici rimasti nel paese. La Sierra Leone ha voluto inserire in agenda il tema dell’insicurezza marittima e della pirateria nel Golfo di Guinea, mentre l’Algeria si è posta come ponte fra Sahel e Maghreb, proponendosi come guida per gli investimenti securitari.

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Matteo Giusti, giornalista professionista, africanista e scrittore, collabora con Limes, Domino, Panorama, Il Manifesto, Il Corriere del Ticino e la Rai. Ha maturato una grande conoscenza del continente africano che ha visitato ed analizzato molte volte, anche grazie a contatti con la popolazione locale. Ha pubblicato nel 2021 il libro L’Omicidio Attanasio, morte di una ambasciatore e nel 2022 La Loro Africa, le nuove potenze contro la vecchia Europa entrambi editi da Castelvecchi